Quelle vite meravigliose

È arrivato.
Direttamente dalla stazione, come si confà a un libro ambientato su un treno.
Contiene una storia, fatta di tante storie. Storie di donne, storie di terre, storia di desideri e memoria.
Lo trovate in tante librerie del Salento (presto anche a Torino), e su tutti gli store online.
Di seguito un po’ di informazioni, buona lettura!

 

Quelle vite mervigliose. Storie di donne a Sud Est (Kurumuny Edizioni, 2021)

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Me and You and everyone… than They Know PD

Il 18 marzo 2013, quando ancora avevo pezzetti di fegato da impiegare in animate discussioni politiche, chiedevo al PD queste cose.

Dichiarando senza ombre la mia appartenenza ma anche le mie scelte, non sempre conformi e coerenti, fatte di avvicinamenti e di allontanamenti. Perché frutto, appunto, di _scelte_, intese come ragionamenti ponderati e consapevoli.
Sono passati 8 anni, diversi segretari di partito, diversi governi, diversi leader, diverse correnti, diversi processi e tante scissioni ma le domande di fondo che ponevo mi sembrano ancora, tristemente, valide.

 

******

Io non sono contraria alla candidatura di Ignazio Marino alla guida di una città come Roma. Anzi, ne sono felice.

All’epoca delle primarie per eleggere il segretario del PD, primarie poi vinte da Bersani, per poter votare Ignazio Marino presi addirittura la tessera del PD, frequentai i circoli, misi il naso da cittadina che voleva fare le cose per bene.
Lo votai, allora, perché era una voce politicamente laica, che si pronunciava in modo nuovo e coraggioso su questioni centrali come la fecondazione, l’eutanasia, le carceri, la salute. Una voce che salutavo come progressista, e che apprezzavo tanto più perché proveniva da un candidato di formazione e credo cattolico.
Mi sembrava un modo sano di vivere la politica, la sua, quella cioè di tenere a mente che i diritti di tutti non vanno a detrimento di nessuno, a prescindere dalle convinzioni religiose, che possono, se si vuole, tener in secondo piano, un piano privato.
Continuo a pensarla in questo modo.
Infatti, alle elezioni del 24 e 25 febbraio ho votato PD al senato. L’ho fatto perché, appunto, Ignazio Marino si presentava come capolista del mio collegio elettorale, a Torino.
Mi sembrava un gesto di continuità con me stessa, al di là delle valutazioni che ciascuno di noi può avere su coalizioni, candidati, scelte di campo. E, per lo stesso motivo, la coerenza e la valutazione dell’operato dei candidati, non ho votato PD alla Camera.
Non l’ho fatto perché in lista, prima di Roberto Tricarico, che stimo e che ritenevo una candidatura in linea con Marino e con quel gruppo di dirigenti locali che lo aveva sostenuto nell’occasione delle primarie per la segreteria, ho trovato nomi che non condividevo, in particolare uno voluto da una parte di quel mondo progressista vicino alla magistratura che non si può nominare né criticare a causa di quel fenomeno pernicioso che da vent’anni avvelena il confronto democratico nel nostro paese, quel berlusconismo che ha talmente viziato gli attacchi alla magistratura da rendere impossibile ogni critica costruttiva.

Rivelo le mie motivazioni proprio per sottolineare che, se da un lato sono opinabili, perché scelte personali, dall’altro sono, appunto, scelte. Motivate, ragionate, effettuate sulla base non di una affezione a una idea, ma radicate in un contesto di possibilità e di cambiamento che io avrei voluto affidare, anche, a quelle persone.

E le cito proprio perché la mia critica attiene alle scelte a monte compiute da quello stesso partito, scelte che continuano a essere ammantate da logiche che nulla hanno a che fare con il meccanismo democratico basato sul binomio “ti voto-ti eleggo”. Scelte che vedo nuovamente agite in occasione di questa candidatura (autocandidatura) di Marino a sindaco di Roma.

Per questo motivo, lasciate da parte le questioni relative al tema della “giustizia” e a quello così complicato (per la sinistra) rappresentato dalla “legalità”, mi preme porgere oggi una domanda al partito che ho votato al Senato, e a quel gruppo di giovani e meno giovani amici democratici che avevano sostenuto e sostengono probabilmente ancora oggi Ignazio (Civati, Alicata, Costa e e soprattutto Leonori) per chiedere questo:

perché i cittadini (in particolare gli elettori del PD) sono chiamati a votare candidati che poi vengono destinati ad altri incarichi?
perché i cittadini sono chiamati a votare persone nuove che poi vengono scalzate in lista da altri imposti da logiche nazionali, o peggio, scalzate da esclusi dal voto popolare e inserite per volere centrale?

perché il PD non è stato in grado di formulare/suggerire/appoggiare/immaginare la candidatura (autocandidatura), di Marino un mese fa, prima delle elezioni? Forse che non si sapesse già quanto di buono Ignazio Marino avrebbe potuto fare per Roma prima delle elezioni nazionali, lui i cui meriti già si conoscevano non solo per la sua attività politica a latere ma per essere già stato, egli stesso, senatore nel nostro Parlamento? Non era pensabile un mese fa che Ignazio Marino si candidasse per il governo della città di Roma? Davvero non era normale che seguisse un iter diretto, una candidatura pulita destinata all’amministrazione di una città complessa e importante come Roma?

Vorrei chiedere al PD perché i cittadini debbano eleggere – parola che, in questo particolare momento storico significa molto di più di scegliere: significa dare fiducia, coraggio e senso di continuità, in un gioco a perdere dove sarebbe molto più facile rovesciare il banco e compiere scelte più radicali, estreme o addirittura estranee – persone che sono parte di un gioco altro, che rispondono a logiche non legate al territorio ma che a quel territorio guardano per ottenere voti, per ricercare consensi, per attivare circuiti virtuosi di riconoscimento?

Vorrei chiedere al PD per quale motivo io debba votare un candidato ed essere felice di averlo eletto, se quello stesso candidato è già destinato ad altro, se il mio voto per quella carica non serve, perché c’è sempre una ragione di stato superiore che porta il compromesso un po’ più in là?

La mente va a un altro caso esemplare, perché macroscopico: quello di Michele Santoro che entrò, portato da questo stesso elettorato, nel Parlamento europeo per poi tornarsene di gran carriera a casa a fare il suo mestiere, non appena gli fu nuovamente (e fortunatamente, che gli editti non sono un bene per la democrazia) possibile, lasciando appeso quel mandato di fiducia espresso da chi lo aveva sostenuto e scelto per essere rappresentato. E non in un posto qualunque, ma in Europa, quella Europa di cui molti si riempiono la bocca ma che tanto sembra il parcheggio nell’attesa di un altro giro di giostra.

Mi si dirà che ci sono ragioni che da semplice elettrice e cittadina non posso intendere, che il senso del cambiamento sta anche nel compiere cambi di direzione, sterzare improvvisamente per il bene superiore, oppure che certe logiche sono sottese, che non si può che far così, che in fondo l’importante è che queste persone di calibro e caratura possano essere valorizzate e non importa dove avviene, che… che… che…

Quello che vorrei mi si dicesse, invece, per una volta, e vorrei me lo dicesse proprio il PD, è perché gli serva il mio voto; è perché non si affretta a cambiare le regole e a creare davvero meccanismi di scelta democratica per eleggere dei rappresentanti; perché mi imbelletti come occasioni di grande democrazia quelle che altro non sono se non palliativi a uno scempio a cui non è stato posto rimedio quando si poteva… e che mi convinca che non è vero che, in fondo in fondo, ci faceva comodo così.
Come quando capita che la bambolina, alle giostre, la prendiamo noi, e allora non contano più le critiche alla velocità, all’altezza, all’arbitrarietà delle sorte.

Le regole possono cambiare, se sono sbagliate. E la corenza, si sa, è una grande virtù, ma per camminare, per andare avanti, occorre porre un passo avanti l’altro.Ma è altrettanto vero che la certezza delle regole (del diritto, e della pena) è uno dei fondamenti dello stato moderno.

Non dimentichiamocelo, mentre rimettiamo in ordine questo bistrattato paese.

E non dimenticatevelo.

Che anno è, che giorno è … (pandemia, anno due)

Un anno dopo, eccomi al punto di partenza.
Sono sempre a casa.
Il Festival lo stiamo pensando di nuovo in formato ibrido, perché se del doman non c’è certezza, dell’oggi tanto meno.
Qualche volta (poche) vado in ufficio per provare l’ebrezza di vedere delle persone in 3D e capire l’effetto che fa; altre volte (molte) mi spacco gli occhi e la schiena nelle innumerevoli riunioni online sulle centordici piattaforme che hanno preso il posto d’onore nel nostro quotidiano martirio.
In questo anno, nella pausa estiva in cui ci eravamo illusi che tutto sarebbe passato, sono riuscita a spostarmi fuori da Torino solo due volte. Due spazi di libertà conquistata metro per metro, grazie alla generosità di amici fraterni che abitano sul mare, o in mezzo alla natura selvaggia e disordinata, e che mi hanno accolta, ci hanno accolti, in una inedita versione di isolamenti forzati eppure così cari. Perché se cene, concerti, aperitivi non ci sono stati, la gioia di poter stare all’aperto, in mezzo alla natura e non confinati in quattro mura e un tetto spiovente, quella sì, ce l’hanno donata.
A marzo dell’anno scorso non pensavo che lo avrei potuto fare, a marzo di quest’anno mi chiedo se potrò nuovamente farlo.
Nell’anno in mezzo a questi due marzo, sono successe anche delle cose, perché la vita nonostante tutto è andata avanti anche senza che noi potessimo farci granché.
La più bella cosa che mi sia capitata è che tra noi è arrivata Luna, la mia terza bellissima nipote. Nata in piena ondata di pandemia, nata da sola, in un ospedale blindato, nata forte, come solo le guerriere neonate sanno essere. Il suo spirito di adattamento alla vita è stato il regalo e il monito più prezioso. Da 9 mesi sorride alle mascherine e si rabbuia a vedere i volti reali: che si deve aggiungere d’altro?
La più brutta è che sono morte delle persone care, altre sono state ricoverate e salvate per miracolo, altre si sono ammalate.
È capitato anche a me, nonostante le precauzioni e una vita monacale che a confronto quella di Monza, la monaca, fa la vita di Steve Mc Queen.
Nel mezzo, ho imparato tante cose.
A fare la zia a distanza, giocando dallo schermo di un tablet.
A rinunciare ad abbracciare mia madre, mio padre, mia sorella, i miei nipoti, i miei amici.
A mandare giù il sapore aspro dei baci negati.
A tollerare la paura negli occhi dei miei amici più fragili mentre mi avvicinavo per toccarli.
A gestire l’ansia di contagiare, ammalare, far morire, morire, di fare e di non fare, di resistere e di lottare.
Ad adattarmi al lavoro che è cambiato (quando c’è stato), ai diritti negati, agli spazi proibiti, alle giornate recluse, alle assenze, ai divieti, alla rabbia che si rapprende in abitudine.
A non andare al cinema, a non andare a teatro, a non andare a un concerto, a non andare al bar, a non andare al ristorante, a non fare in sintesi tutte quelle cose che la bacheca di Facebook mi ricorda ossessivamente come eventi cardine della mia vita di prima: eventi, cene, spettacoli, progetti, presentazioni, libri, incroci, mondi.
Ho imparato a vivere le cose quando capitano, a pensare di avere un tempo quando mi è stato detto che potevo averlo, a ridurre i programmi, azzerare i sogni, rimandare le speranze, barattando un futuro che già non avevo con un presente che dire precario è un gesto da ottimisti patentati.
In tutto questo resistere, in tutto questo stare a galla, qualche debole segnale ogni tanto è arrivato (i vaccini, i protocolli, le altalene dei colori). Ma la sensazione che sia troppo poco e che avvenga troppo lentamente, è fortissima.
È passato un anno e siamo di nuovo, di fatto, in zona rossa.
Mi ero autoconvinta che avrei saltato il festeggiamento del 44esimo compleanno rinunciando alle file di gatti in fila per tre per dedicarmi con brio al 45esimo. Me lo ero sempre pensato in giro per il mondo, dopo un mare di brindisi con amici e familiari, gente felice che ama stare al mondo e gioire per la vita. Invece quella che sta per arrivare sarà un’altra, maledettissima, primavera, senza nemmeno il conforto delle ugole stonate degli amici.
Non posso fare a meno di pensare che le cose cambieranno, che non potrà piovere per sempre, che la vita riprenderà il suo corso. Ma lo scollamento con la realtà che vivono le persone che governano la mia vita, dicendomi sempre più puntigliosamente come io la debba vivere, mi spaventa e mi opprime.
Spero, mi auguro, mi costringo a pensare, che NON CI ABITUEREMO.
Che manterremo sempre forte il senso della nostra umanità, la scintilla della lotta, la forza per ribellarci se riterremo che la misura sarà troppo colma.
Ho bisogno di crederci, anche se ogni tanto vacillo.
Perché, alla fine, penso che la primavera sia anche un po’ questo.
Il ritorno della speranza, affidata a un fiore che sboccia in un campo dove prima c’era solo silenzio.

My quarantine

Il cielo.
Essenzialmente il cielo.
La fame d’aria fa boccheggiare. L’ansia prende alla gola, l’occhio insegue parole sullo schermo, il dito compulsa i tasti di aggiornamento.
Tornare a respirare, fuori. Sgonfiare il cuore dal senso di pressione, volgere, s-volgere, districare lo sguardo verso un orizzonte verticale, in alto, all’aperto.
Il confine del monitor è un’abitudine a cui aggrapparsi, inizialmente rifugio, poi prigione certa.
Il baratro si apre su un tempo che diventa senza misure, dilatato e dilaniante.
Lo colmano poche azioni e molte domande: domani, lavoro, senso, paura. Di ammalarsi, di morire. Da fuori arriva la rabbia, per chi non sta alle regole, per chi ci sta troppo. Un coacervo di sentimenti indistinti, vecchi e nuovi.

E il tempo.
Da riempire improvvisamente di niente. La creatività chiama serenità, come l’amore. Non si ama a comando, né si crea. Per questo non scrivo, né leggo. Un buco dentro l’anima e la testa.
Far scorrere le ore cercando le emozioni. Dare una casa ai sentimenti nuovi: angoscia, timore, precarietà, inutilità.

Le parole, unico conforto.
Con gli amici, con gli affetti. A mischiare la rabbia dei progetti infranti, degli abbracci che mancano. Il cuore che si stringe pensando al profumo della pelle delle madri lontane, padri che non possono abbracciare, dei bambini che non possiamo stringere. Il mondo che ha reso globale le relazioni, costruendo una casa unica a portata d’aereo, ora nega i legami. Amici e sogni in tanti altrove, prima possibilità, ora ostacoli.

E l’ansia che arriva.
Non poter viaggiare, perdere ciò che riempie il mio essere. Ansia che spunta le mie armi, viaggio e scrittura, kilometri e parole, strategie per colorare la vita, da custodire dentro, come tesoro inespugnabile e segreto.
Con il blocco il respiro diventa affanno, la pressione un’altalena senza regia.
È il corpo che manda segnali. È la mente che non processa più la realtà. Senza il controllo serve una nuova attenzione, un progetto di ripartenza. Ma non è il momento, non subito.

La lusinga della cucina coccola i domani che si inanellano.
Pomeriggi di caffe vietnamita, riti solitari fatti delle torte che non ho mai fatto. Le mele, le mele danno sicurezza al mattino. E poi la pizza, rifugio nella tradizione e nei carboidrati, nell’energia che non serve: inseguire il lievito, opporre mattarelli, conquistare spianate, rimpiangere il licoli. Cioccolato, vino. Consolazione per le queste ore strane. Una serie tv, una sola a scandire le ore, rubando i pensieri. E poi cose che non pensavo possibili: scalare la noia di una montagna di abiti da stirare, lustrare il frigo, inseguire le fughe delle piastrelle, spiare l’interno dei mobili.

E la musica.
È il cortile. Usando una scala secondaria, si arriva su un pianerottolo con un balconcino. Illuminazione.
Mi accontento di un metro quadro di respiro, che mi regala il colore del cielo.
Elena suona e mi sembra che il cuore rinasca. Dieci minuti al giorno, un regalo per l’anima e capisco che li dovrò difendere. Sono un’isola di socialità, una parentesi di umanità, un modo per condividere con altri umani questo passaggio.

In faccia arriva l’aria, nelle orecchie il vociare degli uccelli. Sulla pelle la pioggia, quando finalmente scende copiosa, dopo il freddo pungente.

Mi accorgo degli altri.
Altri affacciati, che non ho mai conosciuto. Finestre che si aprono su un cortile nuovo, sgombro di auto, con cerotti di parole crociate che intervallano l’asfalto. Piante, volti, voci. Affiorano, giorno per giorno.

Quello di Elena è un messaggio, diventa un appuntamento.
Lo difendiamo, perché ne abbiamo bisogno tutti.
Qualcuno scende. Le mansarde non hanno aria. Un’ora o poco meno, lo spazio di un saluto distante. Metri di sicurezza, bottiglie di vetro, bicchieri in tasca.
Facce che sono nomi che sono nuovi amici. Ogni tanto il dubbio, sempre la condivisione: infrangiamo piccole regole per sopravvivere, reagiamo a nostro modo alla vita che si è interrotta. Le domande aiutano a formulare risposte che servono al nostro quotidiano.

Sentiamo sulla pelle le tentazioni della clausura. La voglia di uscire sostituita dalla paura di farlo. Ci arrediamo il tunnel, noi umani, siamo fatti così. Abitudinari e capaci di adattamento, una brutta bestia. Resistiamo, ma è dura sconfiggere il senso del dovere collettivo.

Alzare calici e pensieri è un rito che diventa parte delle nostre ore. Lo aspetto, lo aspettiamo. Quasi a scusarci se ogni tanto il lavoro si sovrappone. Quasi a considerare che non è più così importante, quando tutto ha smesso di esserlo. Odiare le video chiamate, odiare chi finge che tutto sia come prima, chi sfrutta il lavoro che non c’è, chi pensa che sia opportuno, ancor prima che opportunità. Pensare a una vita diversa e al timore che tutto sarà eguale.

Respirare, ogni sera, guardando il cielo. Piano piano arrivano le rondini, è un vorticare intorno alle nuvole. La luna ritaglia lo spazio del quadrato di cielo che abbiamo; gli alberi non a tutti sono concessi, per le geometrie obbligate.
Godiamo del silenzio e del tepore, di questa estate prima del tempo, agosto metropolitano fuori stagione.

Sentire la natura, accorgersi dei particolari.
Scendere e progettare il futuro.
Capire che il dopo potrà esserci se lo vorremo, e potrà essere assieme. Mettendo assieme i pezzi conquistati, raccogliendo i frutti. Canteremo, mangeremo, suoneremo, ci ubriacheremo assieme.
Lo faremo qui, dove ora ci è dato rifugio, dove ce lo siamo preso.

Bere assieme nel sole di Pasqua è una gioia genuina che non ti aspetti.
Ridere senza sentirsi in colpa. Sorridersi. Un po’ discosti, che non c’è nulla di male, ma non si sa mai, divisi tra dovere e responsabilità.
Eppure resilienti, ci ritagliamo una pizzata in una sera speciale, quella del 25 aprile. Festeggiamo la liberazione, dopo Bella Ciao con le mascherine cantiamo il nostro primo maggio lontano dalle piazze, per alcuni il primo combattente.
Le liste dei morti sul lavoro, e il senso di questo tempo, per noi.

Il dissidio arriva puntuale, come in ogni organizzazione sociale.
La rabbia per chi non capisce e non ci vuole, ottusità, egoismo. Tornano le ansie, e i dubbi, il pensiero delle libertà di tutti.
Troviamo la via e la via è un lento ritorno alla normalità. Quello che speriamo accada.

Respirare intanto. Camminare. Ora anche fuori, intorno, lontano. Si può. Ma respirare dal cortile, anzi dal balcone, ormai ha un altro gusto.
E avrà sempre il sapore della libertà e della vita ritrovata, quando era più difficile trovarla.

 

 

Le cose che mi sono mancate in quarantena (elogio della bellezza)

Il Caffe in ghiaccio alla Guardiola, sulla curva a picco sul mare della litoranea Otranto-Leuca

Il profumo del finocchietto selvatico sul sentiero delle cipolliane, a Novaglie, prima del Ponte Ciolo

Scendere a Torre Uluzzo per fare i tuffi dalle rocce e nuotare fino alla grotta

Risalire verso il Fico d’India e bere una birra ghiacciata ballando mentre il sole tramonta e la luna sorge sopra la macchia mediterranea, tra Nardò e Porto Selvaggio

Il rumore delle cicale alle Orte, mentre risaliamo dal mare con Simona

Le feste sulla terrazza dell’Esperia, in riva al Po, tutte

I rossi e i verdi del lago di bauxite, sulla Costa di Otranto

Il sole che diventa ombra appena entri a Porta Rudiae a Lecce, al pomeriggio

Il colore del mare a Castiadas, in Costa Rei. E il pesce da Nando, ai Tarocchi e il profumo dei ginepri selvatici sulla spiaggia in Costa Rei

Tutti i concerti di Bruce Springsteen (e i ritorni)

L’aria della mattina a Triei e quel faraglione a picco sul mare, Sa Pedra Longa

L’olivastro nel giardino di Pietro

Le sere nel porto di Bosa con Ester e Vale

Il divano lexotan a casa di Ester, dopo aver camminato per le vie di Cagliari

Come dice Alice, le schiene dei ballerini di Raggaeton al Club Mejunje di Santa Clara a Cuba

Il divano di Wilma&Daniele, con Andrea e Tropo, Dexter, Satana sulle gambe

La terrazza a casa di Fiore, il bianco energetico della sua casa, la vista sulla sella del diavolo

La luce del bastione San Remy quando tramonta

I ricci e il vino bianco al chiosco sul Poetto, d’inverno

Il cappon magro all’Osteria della Tosse a Genova con Rebecca

La festa delle Luci a Scorrano e il panino con i pezzetti di cavallo al sugo

L’odore dei noccioli a Coassolo a giugno, e le lucciole nel prato dietro la casa

Il campanile di sera, le luci della città, il gradino sulla porta

Le chiacchiere con Ivano sui gradini di casa dei miei

La colazione al caffè Elena la domenica mattina, dopo aver camminato a piedi fino a lì per leggere il giornale al sole in piazza Vittorio, d’inverno

Remedios quando mi vede dalle scale all’uscita di scuola

Ettore che scappa nel corridoio di casa mia quando lascio la porta aperta

Il respiro della mia mamma

Le risate di papà

L’abbraccio di Paola la mattina nel retro del bar, mentre aspetto che Pietro mi faccia il caffè

Il bacio di Pietro la sera prima di andare a casa

Il sole e le ombre delle panchine in piazza Bodoni, nelle pause pranzo feriali

Mangiare l’erba

Papà quando andavamo in montagna e le chiacchierate infinite in discesa

Il profumo del frangipane in Laos, per le strade di Ventiane

Le ciliegie sull’albero a Coassolo, quelle sotto al cortile della casa vecchia

I fulmini da lontano sotto il cielo stellato, nel villaggio tedesco della Mescot, in Borneo

Giocare alle 5 pietre sulla terrazza dell’imam del villaggio di Batu Puteh, nel Sabah, e la pioggia che scende

La pioggia tropicale appena rientrati dall’escursione nel parco di Bako, in Sarawak

L’Angor wat quando non lo sai e te lo trovi dietro la curva

Le noccioline salate in tutti i bar della Cambogia

Tutte le colazioni di Valérie a Luang Prabang

La notte nel santuario degli elefanti a Sayabury, la capanna in legno e bambu, il rumore delle cicale, le stelle cadenti con Joe

La colazione della moglie di Mr Thon al villaggio lungo il Nam Ou, dopo Nong Kiaw

Il cuore che non si aspetta le cascate di Kuang Si nelle campagne intorno a Luang Prabang

Sukumvit Road a Bangkok, il traffic, il rumore

La casa di tek di Terzani e il suo giardiniere Kamsing quando si fa la foto con Joe

La Birra Bia Hoi alla spina nei bar ad Hanoi, sulle sedioline azzurre

I faraglioni di Halong Bay che li ho visti pure col sole, un miracolo

La barca di legno tra i canneti nel delta Mekong sotto il sole

El mejor Mohito al Bar El Cambio di Camaguey

L’odore di pane di tutte le notti cubane

L’aragosta alla Creola di Marta e Manoel

Il tramonto sul tetto Bacardì de l’Havana

Il vento e il sole sul Malécon la prima mattina

L’odore della pelle di Yasniel

Lo stick rice nel barattolo di bamboo al mercato notturno di Luang Prabang, e il pesce grigliato

Le sei di mattina in Allen Street, Lower East Side, NYC

L’odore della metro a Parigi

L’Osteria della Foce a Pienza con i miei amici

Le ostriche e l’aioli di Toineau, tutte le volte

Il vento nelle Calanques quando siamo andati a passeggiare io e Joe

Central Park con Cristina e Ester

La partita dei ragazzi nel parcheggio del Panier a Marsiglia

Andare al mercato a Lione con Rebecca

Mettere i piedi a bagno nel mare del Nord, vent’anni fa

l’odore della torba in Irlanda

Gli scones al rabarbaro

Tutti gli aperitivi con Mariachiara

Il sole di mezzanotte e la luce di Capo Nord, In Norvegia

Il the alla menta in piazza Jemaa el-Fnaa

La puzza della concia di pelli a Fez, e i pensieri

Tutti i miei amici

Rotolare dalle dune del Sahara alle 7 di mattina, trascinata da un berbero vestita di blu

La via lattea quella notte ad Alghero

La strada tra Sulmona e L’Aquila con le mie amiche

Quando ho alzato gli occhi dal prato per guardare le foglie degli alberi e ho pensato che ero a casa, e invece ero in Turchia

I pasteis de Belem a Belem

Il Porto bianco nelle cantine di Oporto con Stefy

Le migliaia di km in macchina

La prima volta in cui sono salita su un Airbus per andare in Giappone

La prima volta che ho assaggiato il the verde al mercato di Osaka

I caprioli nel giardino dei templi a Nara

Le renne sulla strada nel circolo polare artico

La musica dei semafori a Tokyo

La prima sera sul terrazzo a Osaka, con gli amici americani

La prima volta in cui ho sentito parlare di Pol Pot da un uomo che era scappato dalle leggi di Pol Pot

L’odore del tatami di notte, nelle notti in Giappone

La pioggia sul fiume Nam Ou e il cappello di bambu di mr Thon

I granchi al burro nel parcheggio sopraelevato di Kucing, in Borneo

Andare da sola a Hiroshima

Andare a Chinatown sul nostro primo tuk tuk a Bangkok

Il ca phe di Ho Chi Minh

La salsa piccante del Ban mi sulla panchina a Hoi An e la chiacchiera con le signore della via

Le crepes vietnamite della mamma di Coca Cola, a Hué

Il tempo sulla panchina nel giardino di Kensington con Ester

La scalinata del Sacre Coeur mentre contiamo gli uomini pastello

Il ricordo perfetto sull’altalena a Kreuzberg

I polpi essiccati di Ano Meria a Folegandros

Tutte le notti in aeroporto (in particolare quella ad Atene con Ester a cercare borsette per il matrimonio di mia sorella)

La prima tarte flambée

La gita fuori porta a Strasburgo con Dani ed Elisa

Djamel che mi insegna a cucinare il cous cous

Quando abbiamo guardato per due ore un documentario sulle formiche a Londra

Il tramonto a San Gregorio con mia sorella

Tutti i concerti in cui ho sentito suonare Kali Nifta

Il fritto di pesce sul molo di Tricase con Rebecca, Domenico e Beppe

I ricci col coltello a Le Orte pescati da Ivano, con mia sorella

Le ronde di pizzica nella prima notte della Taranta, con Elisa e Simona

Il primo pasticciotto caldo di Andrea Ascalone a Galatina

L’erba umida sotto i piedi nudi, sempre

Abbracciare un albero, sempre

Lo sguardo dell’orango nel parco del Sabah

La paura di partire

La paura di tornare

Il dolore di quella notte nel gate deserto di Ho Chi Minh

La preghiera tra i sassi del tempio

L’incenso che brucia nei templi

La puzza di piedi della moschea Blu

La notte con gli Iban nella longhouse del Batang Ai

l’aperitivo a Marina Bay a Singapore

Il rumore della pioggia nell’atrio dell’hotel di Kuala Lumpur

Vedere Alice all’aeroporto di Kuala Lumpur

Lo yogurt greco a pranzo a Paros

Tutte le risate, sempre

La prima alba d’Italia vista a Punta Palascia, quella mattina

L’Albania che si vede dalle coste di Otranto quando è sereno

La fatica di ogni salita in montagna

L’odore di rododendro nelle mie montagne

La notte in cui ho dormito al Lago nero, a 14 anni e Daniele che me lo rinfaccia ancora

Il prima, il dopo e la vista dal Rocciamelone

La neve in bocca, sempre

Il chiostro di Santa Chiara a Napoli

Il tramonto a Zanzibar, nel locale di Domenico, con le gnare ed Elena

I semolini dolci che fa la mia mamma

Il Poetto, sempre

La salsedine quando scendi dalla scaletta dell’aereo a Brindisi

Finalborgo con i miei

Mia sorella, sempre

La pizza del Cavaliere, sempre

La scala dei turchi a novembre con Rebecca e Cristina

La minestra di crostacei di Pino Cuttaia

La luce di Noto con Anna

Latte di mandorle, granita di mandorle e giornale al tavolino del caffe Sicilia

A Valmaggiore distesa tra i vitigni con Davide

La tartiflette a Nevache mentre fuori c’è la neve

Sdraiarsi nell’erba a Central Park come se fossimo a casa

I km fatti a piedi

Tutti i baci

Tutte le zattere dei fiumi in Asia

Il profumo della mia nonna

ventiventi

Sono nata il 21 di marzo di 44 anni fa. Era una domenica notte, per la precisione le 00.15, a testimonianza già allora della mia indole notturna e del ritardo cronico, anche quello per venire al mondo. Sono nata piccina picciò, inconsapevole del fatto che avrei avuto tempo e spazio per riprendere tutti i chili che mi servivano, e anche qualcuno di scorta.
Questo essere piccola portò qualche apprensione in più ai miei genitori e a me fece guadagnare un mese in incubatrice.
Un mese di isolamento e cure ospedaliere, senza la possibilità di contatto con nessuno se non gli infermieri. Mia mamma mi racconta spesso che mi doveva guardare dal vetro del reparto, che io mostravo sempre e solo il profilo, perché ero intenta a succhiare con determinazione il microbiberon che mi mettevano nella culletta. Nessun abbraccio, nessuna carezza, nessun contatto con chi mi aveva messo al mondo. Per i miei genitori, una attesa prolungata, un amore da mettere  alla prova della distanza, una cura da centellinare nella fiducia nel prossimo, nella scienza, nell’umanità.
Non so se di quel periodo serbo ricordi sotto forma di sensazioni precorticali – certo non immagini o parole. Forse una parte del mio essere spesso in allarme, in assetto difensivo, vigile, deriva da quel passaggio fondamentale con cui ho preso confidenza con la vita.
Un passaggio in cui sono stata messa di fronte al fatto che me la dovevo cavare da sola, e nello stesso tempo affidarmi a degli estranei, se volevo uscire da lì.
Ci ho messo molti anni, tutta la vita direi, a imparare a fidarmi del prossimo, a fidarmi dell’amore, a chiedere aiuto sapendo che poteva venire concesso, a non pensare, con il corpo ancor prima che con la mente, di dover fare tutto da sola.
Oggi, 44 anni dopo, sono di nuovo in isolamento.
Non sono completamente da sola, ci sono Joe e Malpelo con me, ma la prova non è certo meno ardua. Nel mio mondo diventato iperconnesso, quello che resta di nuovo fuori dalla porta sono gli affetti: i miei amati genitori, mia sorella, i miei nipoti, i miei amici, la mia famiglia allargata.
Di nuovo, 44 anni dopo, sono chiamata a fidarmi degli altri. Ad agire senza fare nulla, rispettando i confini e confidando nel comportamento virtuoso degli altri. Ad affidarmi.
Ѐ una battaglia molto difficile. Non perché io sia indigente (certo, se perdurasse, forse lo diventerei, è una cosa con cui nelle notti insonni un po’ faccio i conti) né perché non abbia casa o cibo, anzi, ne ho fin troppo.
Ma perché mi chiama a un senso di responsabilità piuttosto spiccata, e con me, tutti gli altri. Una responsabilità verso noi stessi, verso gli altri, verso chi non conosciamo, verso il nostro futuro. Verso la democrazia, verso le regole del vivere comune, verso il confine sottilissimo tra i mei desideri e i miei diritti  e quelli degli altri, verso il nostro essere specie – come qualcuno ha ricordato – tra le specie viventi, ospiti di un pianeta e non padroni, verso gli altri esseri viventi.
Quando sono nata era primavera, oggi è di nuovo primavera, anche se non è il rigoglio della natura che abbiamo nel cuore.
E allora vivo questo presente per il futuro che verrà, cercando di costruirne un pezzetto piccolo anche io. Con pazienza, con coraggio, con umiltà, con rispetto, senza rinunciare a pensare, a dubitare, a vivere.
In gioco c’è di nuovo la fiducia. Ha portato bene, lo farà anche questa volta.
E la primavera  ritornerà.
(E con essa una grande festa, a ballare sui tavoli, promesso).

my darling quarantine

Sono a casa.
Sono a casa perché ho dovuto rimandare il Festival.
Perché giustamente l’azienda con cui lavoro prende delle precauzioni per la nostra sicurezza.
Perché l’associazione con cui collaboro lavora nell’ambito della formazione e quindi va di pari passo con i ritmi delle scuole, cioè chiude.
Sono a casa perché non sto nemmeno così bene, e quindi è meglio così. Per me, per i miei amici, i miei genitori, i miei colleghi.
Sto a casa e cerco di non farmi venire la depressione, lavoro, penso, scrivo, leggo, progetto i viaggi che un giorno farò.
Mi pesa non poter vedere i miei amici, non poter andare al parco con mia nipote, non andare a bere un bicchiere, non andare al cinema. Mi pesa questo “non” che aleggia sulla mia vita.
Se penso che davanti ho un periodo molto lungo, mi chiedo quanto tempo resisterò prima di diventare la Sue Ellen di via San Domenico, oltre che una casalinga fissata con le piastrelle.
Capisco che si debba fare così. E che a noi, se non ci impongono le cose, proprio non ce la facciamo a farle. Siamo un po’ anarchici e un po’ cazzoni, ci piace crogiolarci nell’idea che siam figli di guappi e guasconi, che siamo furbi, che gli altri sono stupidi, o quantomeno noiosi.
A noi la democrazia ci schifa proprio, perché la usiamo per protestare per le cazzate, e sulle cose importanti sentiamo le catene fake che corrono dentro i nostri gruppi whatsapp. Abbiamo paura di tutto ma non facciamo niente. Tutto è un nostro diritto e niente fa parte dei doveri, perché l’altro, quello a cui lo devo, è sempre troppo lontano, troppo distante. Mi opprime, mi soffoca, mi richiama all’ordine, spesso morale e, ogni tanto, come adesso, anche fisico.
Sto a casa e come tanti autonomi non so se, come e quanto potrò lavorare in futuro, un futuro dopo questo presente così incerto, ché i nostri sono mestieri evanescenti: la cultura, la formazione, l’arte… Quasi un lusso per poter essere considerati davvero un investimento produttivo capace di attrarre risorse reali – e tutele.
Sto a casa e rispetto il dolore di chi ha dovuto chiudere la propria attività, o ne ha visto limitare la portata. Tutti dobbiamo lavorare, i sacrifici sono durissimi. E quindi li capisco. Ma non ho bisogno di essere albergatore, cuoco, barista, attore, regista, grafico, maestra o infermiere, per farlo. L’empatia non ha confini così ristretti da includere solo il mio “simile”.
Quello che proprio non capisco è quelli che se ne fottono proprio.
Che pensano che io, l’albergatore, il cuoco, il barista, l’attore, il regista, il grafico, la maestra e l’infermiere siamo tutti imbecilli: oggi c’è il sole, che sarà mai se mi faccio due ore al bar seduto al tavolino con gli amici a ridere e scherzare.
Perché, secondo loro, a me non piacerebbe?
Perché secondo loro non mi verrà lo sclero a breve, per questa reclusione?
Perché secondo loro le madri o i padri o i nonni a casa da quasi tre settimane non vorrebbero uscire a ubriacarsi con i loro coetanei?
Ora, non ve lo chiedo per me, che tanto lo so che una foglia che cade non fa notizia eccetera eccetera o comunque ne fa poca.
Fatelo per chi come qualche mio amico ha un padre in ospedale adesso, ha un figlio che incrocia i pronto soccorso o ha un amico, un’amica, che lavora in corsia.
E se proprio non riuscite a farlo per gli altri, perché siete troppo egoisti e minchioni, fatelo per voi stessi pensando che un giorno potrebbe toccare a voi, di avere un dolore, una malattia, un problema grande. E quel giorno vorrete tutta l’attenzione, la tecnologia, la medicina, le possibilità del mondo per guarire e ritornare alla vita.

Per cui andate a casa porcocazzo, adesso, e restateci per un po’.

Tornare in Salento

Dopo vent’anni di Salento, le settimane a sud di Lecce non le considero ormai più vacanze, ma ritorni.
Il mio è un viaggio all’incontrario, un risalire verso radici del cuore più che del sangue, verso una condizione di adesione al naturale e al reale in cui reinventare il presente e vivificarlo, compreso quello che si svolge altrove.
Il Salento per me è incontro di affetti, è ritrovarsi nei luoghi e sotto lo sguardo del tempo che fa scorrere le stagioni, è rinnovare nel gusto i sapori che richiamano stagioni passate.

Questo viaggio è stato dunque un altro ritorno, pieno di ricci mangiati sugli scogli del porto vecchio di Novaglie, di gelsi rossi colti dalla siepe del muretto della casa a mare di Torre Chianca, di polpette di polpo della friggitoria sotto l’agrumeto, di pesci arrostiti sulla pietra lavica, del rumore del mare prima di dormire, delle lucette della festa di paese mentre tutti tutti ballano scalzi sul selciato, della cena in giardino nella campagna di San Cesario, a parlare di donne e amori, di case con le porte aperte che puoi entrare senza essere annunciato se non dai vicini, della luna grande sul mediterraneo, della Guardiola di notte che si affaccia sui faraglioni di quasi Leuca, dei vagoni della Sud Est sferragliante e torrida che mi porta a Tricase, del capotreno che si siede con me ad aspettare e a parlare della vita, del caffe in ghiaccio da Alvino, all’ombra di sant’Oronzo, di Luigi il professore che vengo a trovare da quando di anni ne avevo 18, riempiendogli casa di amici, chitarre, fidanzati, massimi sistemi fino a notte fonda sotto il pergolato, della piccola cana che mi dorme sui piedi come quando era cucciola, del profumo di iodio che senti quando scendi a Brindisi, del caldo umido della notte rinfrescato dal tramontana, del barocco illuminato di ombre brune che tengono compagnia al bicchiere notturno nel centro storico non ancora invaso di turisti, del giugno che promette, delle piante grasse fiorite di fiori mai visti, della bambina a cui raccontare un giorno tutto questo, degli appunti sotto l’ulivo, di rocce acuminate sotto i piedi, di un bagno da sola nella baia di Novaglie, nel blu cobalto che si prepara alla notte, del pittore che scopre il movimento nel sole accecante del mattino, della polvere sotto i piedi della strada demaniale, della casa in cui inviavo lettere di penna e in cui ora rivive la bimba che crescerà, dei passi solitari tra le porte storiche, delle soste in libreria, dell’abbraccio con le madri, di donne nuove che incontro per via,  del raccontarsi la vita dentro un crem caramel che viene dalla Spagna franchista, della commozione che nasce tra generazioni lontane, degli incroci impazziti nel traffico leccese,  dell’orizzonte in cui perdersi per ritrovarsi, dell’anima da ricomporre nel negroamaro, della vita che si sceglie a morsi, senza dare fastidio al destino, sedendosi accanto per aspettare l’ora bianca che precede il tramonto, in cui il giorno concede tregua ai sensi e spazio ai pensieri.

Un dì s’io non andrò sempre fuggendo

Pantelleria (2007 o giù di lì)

A guardarla dalle pendici di montagna grande, l’isola sembra in salita.
Davvero, c’è troppo mare all’orizzonte e la linea si incurva per trovare armonia.
Tutto è una sfida qui.
Perché tutto è incontro. Acqua e fuoco. Vento e Terra. E, in mezzo, la cocciutaggine fiera di chi si adatta e non si piega.

Ecco la risacca. E lampi in lontananza, a rompere il cielo, quasi a chiedere rispetto.
È il filo di questi giorni, l’incontro con l’Isola.
Ascoltare la sua voce. Cercare l’identità. Imparare a respirare con i suoi sussulti antichi eppure senza tempo. La ciclicità cui alludevamo, che ridona senso e spazio.

Perché i pensieri possono essere pensati.
Accettare il peso di domande.
Provare a trovare da soli il senso.
Accettare i tempi di chi è lontano e ha bisogno della sua dimensione per ritrovarsi, di intimi e intensi silenzi. Così dolorosi a volte da rispettare.
E senti lo strappo della lontananza, e il timore di perdere ancora.

Però rimetto assieme i pezzi. O almeno ci provo. Che di cose ne ho sparse molte, e a alcune le ho smarrite forse per sempre. Che ogni dolore si porta via qualcosa e quello che apprendi crescendo, rispetto a ieri, non è di più. È altro.
Ripartire dalla natura, in questi giorni, significa anche provare a fare spazio.