Ho avuto molte ore per pensare, in questo mio lunghissimo viaggio di ritorno dall’Asia.
Ore spese per abituarmi all’idea che oggi avrei dovuto salutarti per sempre. Sono ancora incredula, stranita, come catapultata in una realtà aliena. Ho provato a ripercorrere la mia vita insieme a te, la nostra storia da quando io ti ho raggiunto al mondo. E, sorprendentemente, tra tutti i pensieri e le immagini confuse, una domanda si è fatta insistente: quanti sono i sorrisi che si possono contare nella vita di una persona? Quante le risate scambiate? E, ancora più sorprendentemente, mi sono accorta che questa era l’immagine di te che emergeva con più forza nel mio ricordo.
Ed è strano, se penso alle migliaia di litigate furibonde che abbiamo fatto, discutendo sui massimi e sui minimi sistemi, da Dio al sale in tavola, dal rock ai vestiti, dalla politica alle patatine che nascondevi dietro i mobili per mangiartele in santa pace, al riparo dalle nipoti.
Eppure è il tuo sorriso che ho scelto di portare con me.
Quello che arrivava prima di un moto arguto o dopo una barzelletta pungente, quello che accompagnava un gesto gentile o i saluti sulla porta, quello della telefonata al rientro dalle vacanze o dell’apertura dei regali (qualunque regalo: da quelli di Natale rigorosamente impacchettati e scartati la mattina del 25 alle 12,30, quelli del compleanno che volevi ugualmente anche se a due giorni dalla vigilia, quelli che riportavi, sistematicamente, indietro, dopo averli aperti).
Il sorriso del pranzo di capodanno con il concerto viennese in mondovisione e quello delle serate di Sanremo registrate dalla tv, quello di quando giocavamo a carte e tu baravi e ridevi perché io non me ne accorgevo mai, quello con cui guardavi i tuoi piccoli nipotini e quello con cui mi mostravi il tuo ultimo acquisto tecnologico.
Il sorriso che seguiva gli scherzi o i racconti della tua infanzia con mamma, a Lucento, quello con cui accarezzavi il “tenero” (per te) e feroce (per noi) Musetto, il sorriso con cui parlavi di nonna.
Il sorriso, ancora, delle risate piene, che arrivavano all’improvviso. Ce ne sono state tante, anche negli ultimi mesi, quando di motivi ce ne erano pochi. Ogni tanto riuscirvi ad essere ironico e sardonico, salvo poi stizzirti perché non ti capivamo…
L’ultima l’abbiamo fatta pensando agli orientali che si salutano con l’inchino. “Non prendere capocciate quando sarai laggiù”, mi dicevi, “ricordati che devi solo “accennarlo”…”.
E infine, ancora ieri, quando ti ho rivisto, mi è serbato di scorgerlo, per ironia beffarda della sorte, sul tuo volto rasserenato.
Eravamo così diversi, eppure in fondo così simili, come dicevi tu, facendomi arrabbiare tantissimo.
Ora penso che un po’ tu avessi ragione, e nella tua fragilità accolgo e riconosco la mia.
Tra tutti i momenti, per salutarti ne scelgo uno.
Era una mattina d’estate, nella casa vecchia di Coassolo. Tu eri al tavolo di legno scuro, con la tazza di caffè riscaldato e la Gazzetta aperta sulle news del Milan. Io ti guardavo con la coda dell’occhio per cogliere il momento in cui poter leggere la tua Stampa senza stropicciarla per prima. Una volta conquistata, la stendevo per terra, nel raggio di luce che filtrava netto da fuori, tra le ombre delle piante, e seduta sul divano mangiavo pane e formaggio che la nonna preparava per entrambi.
Spero, mi auguro che ci sia un luogo in cui un giorno potremo tornare a salutare di nuovo il giorno che nasce, insieme.
Ti voglio bene zione.