Non amo particolarmente guidare.
Amo farlo però lungo le strade assolate della bassa Puglia, lungo il tacco dello stivale, in quel nugolo di strade che si fanno posto tra campi e muretti a secco, sotto il cielo basso di nuvole piene e orizzonti ampi. Mi piaccono gli ulivi che si rincorrono a destra e a sinistra, le campagne che ritornano verdi e stampano contrasti sui cieli di pioggia, il profumo di mare che arriva a tratti insieme agli odori della macchia, e che anche d’inverno stupisce l’olfatto.
Mi piace guidare verso le case delle persone a cui voglio bene, in questa terra che mi ha accolta e che mi restituisce il senso della possibilità, una terra in cui sta crescendo un progetto lungo e bello, fatto di donne, per le donne, con le donne.
Per questo io, S. e la piccola unenne A. ce ne siamo andate in giro a incontrare le protagoniste delle storie che vorremmo raccontare. Donne che hanno visto secoli diversi avvicendarsi, donne che hanno speso una vita in cui dentro ci stanno mille vite, donne lavoratrici e donne madri, perse nei campi di tabacco e nelle fabbriche, nelle cucine in penombra delle masserie e nel dolore dell’emigrazione, donne che sono tornate perdendo qualcosa, donne che hanno riscoperto la libertà con pazienza, aspettando che prima ce l’avessero tutti gli altri, donne che sono rimaste, donne che sono. E così siamo state a Corsano, a sentire le storie delle tabacchine di Ginosa e di chi è emigrata in Svizzera perché qui non c’era futuro. Siamo state a Guagnano a sentire le voci simbolo delle 250 donne che nel 61 scioperarono per il lavoro e per una emancipazione fatta di identità ancor prima che di possibilità. Siamo state a Corigliano d’Otranto dentro gli occhi di Angela che di anni ne ha 91 e siede all’ombra della masseria di suo figlio, con gli occhi che ridono nel pensare al destino come futuro, prima e al posto di ogni scelta possibile. Siamo state da Ulla e dentro il suo tempo di donna immigrata, straniera per amore, salentina per adozione, che ha fatto di una terra la sua casa, portandoci famiglia e cuore, e provando a costruirci il resto.
E siamo state in treno, sulla Maglie-Gagliano del Capo lungo la ferrovia Sud-Est, a cercare nei sedili di pelle e nei finestrini appannati di pioggia e umidità il senso di un antico passare per le campagne, tra paesi e vite, tra case cantoniere e rotaie lente come le nuvole.
Bello questo libro che nasce dentro i legami delle persone, che si alimenta di reti e di amici, che si estende nel tempo dentro il tempo delle persone, coinvolgendole in una storia che tutte ci riguarda.
Giorno: 5 dicembre 2017
Chi se ne va che male fa
La notizia è arrivata così.
In una mattina serena, mentre prendevo l’aereo che mi avrebbe riportato a casa dopo una manciata di giorni salentini.
Se dovessi descrivere quante emozioni ho provato in quel momento, sarei oggettivamente in difficoltà.
Un po’ per la casualità della scoperta, affidata a una confidenza nata tra quelle mura e che ha portato alla rivelazione della morte di Federica, che altrimenti forse mai avremmo saputo.
Un po’ per la sorpresa, quella di ricevere notizie di un mondo che ho attraversato per poco tempo, con tanti dubbi e molta umanità.
Un po’ per la distanza che sembra oggi siderale, da quelle vite così eguali alla mia eppure così diverse.
Oggi penso solo pensieri sconnessi.
In qualche modo, quando si affrontano percorsi come questo – laboratori o esperienze formative in contesti reclusi – è difficile resistere alla tentazione di sentirsi “i buoni”. Forse è inevitabile, altrimenti il gioco delle parti sociali non sarebbe possibile, e nemmeno la sua rappresentazione fatta di inclusione/esclusione, legittimo/illegittimo, buono/cattivo, che il carcere rappresenta in modo così paradigmatico. Un gioco, per noi operatori sociali, per certi versi ancora più stridente, dato che l’oggetto dei nostri incontri nel carcere di Torino era proprio il pregiudizio dello sguardo, la superbia che inquadra e definisce i destini delle persone in base all’apparenza, il “chi è chi” deciso dalla superficie dell’abitudine e, per converso, tutto il lavoro contrario che abbiamo provato a fare con le ragazze detenute, un lavoro di approfondimento dello sguardo, della conoscenza reciproca, della comprensione dei meccanismi umani che ci portano a definirci diversi o uguali, che ci portano a provare paura o solidarietà, rabbia o inclusione.
Non è stato un percorso facile: non lo è mai, ma in questo caso è stato complicato dall’appartenenza di genere, dallo specchio feroce che i nostri incontri rappresentavano per ciascuna di noi, recluse e libere.
Ci abbiamo provato; per poco tempo, per il giusto tempo, questo non potremo saperlo mai: tra quelle mura si fanno i conti con la disponibilità (nostra, nell’andare, loro, nel mostrarsi), la vita che continua (fuori per noi, dentro, per molte tra loro), la convenienza (nostra, nel proporci e nel proporre, loro, nell’aderire), il senso del futuro, la difficoltà a interrompere la routine, che banalmente esiste in qualunque contesto, anche quello meno scontato.
Non mi sento peggiore, non mi sento migliore, dopo questa esperienza. E non mi sento colpevole di non aver fatto abbastanza, e non mi sento felice di aver fatto quel che ho potuto.
Le vite, le nostre, tutte, sono più complicate dell’attimo in cui ci si incontra, e dei motivi per cui si sceglie di stare, o di andare.
Federica se ne è andata per un’overdose, e a me, a noi, oggi restano solo tante domande, insieme a un senso di stanchezza e di scacco – ingiustificato ma, umanamente, inevitabile – che riporta il pensiero a quanto sia davvero una soluzione, il carcere, o quanto invece sia un modo per rinchiudere tutti quei problemi che, come società, non sappiamo risolvere.
Ciao Federica, buon viaggio.