Amori impossibili, ovvero le cannucce

Ho sempre odiato il billy, la scatoletta di tetrapack al sapore (flebile) d’arancia che andava di moda nella mia infanzia. L’odio si estendeva a tutti gli scatolotti affini, senza discriminazione di gusto o di marca, di contenuto o contenente, di sostanza o simbolo.
Succhi di frutta sottocosto o estathé, il mio era un disgusto chimico, egualitario e democratico.
Però ho amato moltissimo le cannucce.
Negli anni ho imparato a seguirne i percorsi evolutivi, gli adattamenti funzionali e morfologici.
La cannuccia non ha estetica, non vi fate distrarre dai colori. La cannuccia è sostanza. Dai rigidi tubolari cilindrici di formato mignon a quelli a due colori con il taglio obliquo sul lato che perforerà la pellicola dello scatolotto, dalla curva rigida per favorire la suzione al morbido soffietto.
La cannuccia è un miracolo di ingegno. Confesso che ancora oggi, d’estate, mi scopro ad acquistare almeno un succhino, ad aprirne la plastica della cannuccia e a scrutarne lo stato di avanzamento.
Non ho mai pensato che l’innovazione tecnologica passasse da qui.
Ma da sempre mi piace pensare al laboratorio di questa o quella azienda, e a quel qualcuno concentrato a studiare l’adattamento delle cannucce al palato. Signori vestiti di bianco circondati da bicchieri e cannucce, tutto il giorno. Per migliorare un istante delle nostre giornate.
Così immaginerete la mia gioia quando ieri ho aperto la confezione merenda del latte Arborea e ho trovato un piccolo miracolo: una cannuccia completamente nuova, sigillata dal lato della suzione ma con quattro fori ellittici che aderiscono perfettamente all’arcata plantare e alla lingua, rilasciando quantità variabili di liquido.
Come un ebete, sorridevo alla cannuccia.
Che poi dico, mi piacesse almeno, il latte. Ma chisseneimporta.
Da ieri ho un nuovo momento di trascurabile felicità.

cosedinessunaimportanza

_Diario di bordo.

cosedinessunaimportanza (28 ottobre 2015)

Ieri mi è capitato di camminare per la città e incontrare, in luoghi diversi e a orari diversi, donne in lacrime. Adulte o giovanissime, in pausa pranzo o sulla via del rientro a casa, accovacciate per terra come se il peso della telefonata in corso richiedesse una pausa dal moto, con passo marziale, con le cuffie o senza, impavide di traffico e pedoni, cani al guinzaglio e semafori. Unite dalle lacrime.
Mi ricordo di aver pensato che molto probabilmente piangevano per un uomo. Lo so, perché ho involontariamente origliato le schegge dei loro dialoghi, attraversando con loro il silenzio di un incrocio, nell’attesa di un verde che sanasse dolori dell’anima e del traffico.
Ho pensato che avrei voluto dire a ognuna di loro che non valeva proprio la pena, piangere per un uomo. Che erano belle, lì nel loro dolore, e tenere, e forti, e con un sacco di motivi per tornare alla loro vita, felici. Che probabilmente l’interlocutore all’altro capo del filo non lo sapeva nemmeno, non lo immagina nemmeno, quanto loro siano belle, grandi, forti, donne. O forse lo sa, ma non gli importa, o non del tutto, o non nella giusta quantità, probabilmente.
E poi ho pensato che una volta è successo anche a me.
Ero in un parco di periferia, sotto un diluvio primaverile. Una pioggia che avrebbe dovuto lavare via le macchie del dolore e della disperazione. Mi ricordo che stavo su una panchina in mezzo a questi alberi sparuti tra il cemento, fradicia di pioggia e di lacrime, e mi sembrava tutto così ingiusto ma anche un po’ poetico, questo stare lì, in mezzo all’acqua.
Mi ricordo che una signora mi si avvicinò, e mi disse proprio quelle parole, che no, non valeva la pena piangere così, per qualunque cosa io piangessi, per qualunque persona io lo facessi. Che io ero meglio, e che mi dovevo fidare di lei.
A un certo punto, ricordo, mi feci ragione delle sue parole. Mi asciugai per così dire gli occhi, ormai pieni di pioggia più che di lacrime e realizzai dove fossi, così come capita quando nei film il protagonista sta per morire e si vede dall’alto e capisce tutto della sua vita e giura che se non muore cambierà tutto, stavolta.
E mentre lo pensavo, mi sono ricordata però che di motivi per piangere ancora un po’ ce li avevo eccome. Per esempio perché nella mia sceneggiata romantica e dimentica del presente, ero uscita sì sbattendo la portiera dell’auto fuggendo nella pioggia del pineto di borgo vittoria, ma avevo dimenticato che al volante c’ero io, che la macchina era mia, anzi per la precisione di mio padre, e che le chiavi, insieme presumibilmente al soggetto maschile per cui versavo calde lacrime, erano saldamente ancorati all’interno dell’abitacolo.

Così mi ricordo che mi alzai dalla panchina e andai a riprendere in mano chiavi, vita e futuro, persuasa, più che dalla verita cosmica rivelatami dalla signora, dal fatto che mio padre poco avrebbe gradito il furto d’auto, ancorché accompagnato da uno strepitoso racconto romantico.

E da allora penso davvero che no, non valga la pena piangere per un uomo. Non per strada, non se sei una donna, giovane o vecchia o adulta, forte o debole ma bella della tua bellezza unica che hanno tutte le donne, e piena di risorse incredibili. Perché le donne sono fatte così. A un certo punto si ricordano che è finito il latte, che sta per iniziare la lezione, che il figlio è a tennis ad aspettarle. Che la macchina era la loro.

Così per fortuna si alzano, si asciugano le lacrime, e si scrollano il presente umido dalle scarpe.

Per questo, alla fine, non gliel’ho detto, che non valeva la pena.
Lo sapevano già.