Me and You and everyone… than They Know PD

Il 18 marzo 2013, quando ancora avevo pezzetti di fegato da impiegare in animate discussioni politiche, chiedevo al PD queste cose.

Dichiarando senza ombre la mia appartenenza ma anche le mie scelte, non sempre conformi e coerenti, fatte di avvicinamenti e di allontanamenti. Perché frutto, appunto, di _scelte_, intese come ragionamenti ponderati e consapevoli.
Sono passati 8 anni, diversi segretari di partito, diversi governi, diversi leader, diverse correnti, diversi processi e tante scissioni ma le domande di fondo che ponevo mi sembrano ancora, tristemente, valide.

 

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Io non sono contraria alla candidatura di Ignazio Marino alla guida di una città come Roma. Anzi, ne sono felice.

All’epoca delle primarie per eleggere il segretario del PD, primarie poi vinte da Bersani, per poter votare Ignazio Marino presi addirittura la tessera del PD, frequentai i circoli, misi il naso da cittadina che voleva fare le cose per bene.
Lo votai, allora, perché era una voce politicamente laica, che si pronunciava in modo nuovo e coraggioso su questioni centrali come la fecondazione, l’eutanasia, le carceri, la salute. Una voce che salutavo come progressista, e che apprezzavo tanto più perché proveniva da un candidato di formazione e credo cattolico.
Mi sembrava un modo sano di vivere la politica, la sua, quella cioè di tenere a mente che i diritti di tutti non vanno a detrimento di nessuno, a prescindere dalle convinzioni religiose, che possono, se si vuole, tener in secondo piano, un piano privato.
Continuo a pensarla in questo modo.
Infatti, alle elezioni del 24 e 25 febbraio ho votato PD al senato. L’ho fatto perché, appunto, Ignazio Marino si presentava come capolista del mio collegio elettorale, a Torino.
Mi sembrava un gesto di continuità con me stessa, al di là delle valutazioni che ciascuno di noi può avere su coalizioni, candidati, scelte di campo. E, per lo stesso motivo, la coerenza e la valutazione dell’operato dei candidati, non ho votato PD alla Camera.
Non l’ho fatto perché in lista, prima di Roberto Tricarico, che stimo e che ritenevo una candidatura in linea con Marino e con quel gruppo di dirigenti locali che lo aveva sostenuto nell’occasione delle primarie per la segreteria, ho trovato nomi che non condividevo, in particolare uno voluto da una parte di quel mondo progressista vicino alla magistratura che non si può nominare né criticare a causa di quel fenomeno pernicioso che da vent’anni avvelena il confronto democratico nel nostro paese, quel berlusconismo che ha talmente viziato gli attacchi alla magistratura da rendere impossibile ogni critica costruttiva.

Rivelo le mie motivazioni proprio per sottolineare che, se da un lato sono opinabili, perché scelte personali, dall’altro sono, appunto, scelte. Motivate, ragionate, effettuate sulla base non di una affezione a una idea, ma radicate in un contesto di possibilità e di cambiamento che io avrei voluto affidare, anche, a quelle persone.

E le cito proprio perché la mia critica attiene alle scelte a monte compiute da quello stesso partito, scelte che continuano a essere ammantate da logiche che nulla hanno a che fare con il meccanismo democratico basato sul binomio “ti voto-ti eleggo”. Scelte che vedo nuovamente agite in occasione di questa candidatura (autocandidatura) di Marino a sindaco di Roma.

Per questo motivo, lasciate da parte le questioni relative al tema della “giustizia” e a quello così complicato (per la sinistra) rappresentato dalla “legalità”, mi preme porgere oggi una domanda al partito che ho votato al Senato, e a quel gruppo di giovani e meno giovani amici democratici che avevano sostenuto e sostengono probabilmente ancora oggi Ignazio (Civati, Alicata, Costa e e soprattutto Leonori) per chiedere questo:

perché i cittadini (in particolare gli elettori del PD) sono chiamati a votare candidati che poi vengono destinati ad altri incarichi?
perché i cittadini sono chiamati a votare persone nuove che poi vengono scalzate in lista da altri imposti da logiche nazionali, o peggio, scalzate da esclusi dal voto popolare e inserite per volere centrale?

perché il PD non è stato in grado di formulare/suggerire/appoggiare/immaginare la candidatura (autocandidatura), di Marino un mese fa, prima delle elezioni? Forse che non si sapesse già quanto di buono Ignazio Marino avrebbe potuto fare per Roma prima delle elezioni nazionali, lui i cui meriti già si conoscevano non solo per la sua attività politica a latere ma per essere già stato, egli stesso, senatore nel nostro Parlamento? Non era pensabile un mese fa che Ignazio Marino si candidasse per il governo della città di Roma? Davvero non era normale che seguisse un iter diretto, una candidatura pulita destinata all’amministrazione di una città complessa e importante come Roma?

Vorrei chiedere al PD perché i cittadini debbano eleggere – parola che, in questo particolare momento storico significa molto di più di scegliere: significa dare fiducia, coraggio e senso di continuità, in un gioco a perdere dove sarebbe molto più facile rovesciare il banco e compiere scelte più radicali, estreme o addirittura estranee – persone che sono parte di un gioco altro, che rispondono a logiche non legate al territorio ma che a quel territorio guardano per ottenere voti, per ricercare consensi, per attivare circuiti virtuosi di riconoscimento?

Vorrei chiedere al PD per quale motivo io debba votare un candidato ed essere felice di averlo eletto, se quello stesso candidato è già destinato ad altro, se il mio voto per quella carica non serve, perché c’è sempre una ragione di stato superiore che porta il compromesso un po’ più in là?

La mente va a un altro caso esemplare, perché macroscopico: quello di Michele Santoro che entrò, portato da questo stesso elettorato, nel Parlamento europeo per poi tornarsene di gran carriera a casa a fare il suo mestiere, non appena gli fu nuovamente (e fortunatamente, che gli editti non sono un bene per la democrazia) possibile, lasciando appeso quel mandato di fiducia espresso da chi lo aveva sostenuto e scelto per essere rappresentato. E non in un posto qualunque, ma in Europa, quella Europa di cui molti si riempiono la bocca ma che tanto sembra il parcheggio nell’attesa di un altro giro di giostra.

Mi si dirà che ci sono ragioni che da semplice elettrice e cittadina non posso intendere, che il senso del cambiamento sta anche nel compiere cambi di direzione, sterzare improvvisamente per il bene superiore, oppure che certe logiche sono sottese, che non si può che far così, che in fondo l’importante è che queste persone di calibro e caratura possano essere valorizzate e non importa dove avviene, che… che… che…

Quello che vorrei mi si dicesse, invece, per una volta, e vorrei me lo dicesse proprio il PD, è perché gli serva il mio voto; è perché non si affretta a cambiare le regole e a creare davvero meccanismi di scelta democratica per eleggere dei rappresentanti; perché mi imbelletti come occasioni di grande democrazia quelle che altro non sono se non palliativi a uno scempio a cui non è stato posto rimedio quando si poteva… e che mi convinca che non è vero che, in fondo in fondo, ci faceva comodo così.
Come quando capita che la bambolina, alle giostre, la prendiamo noi, e allora non contano più le critiche alla velocità, all’altezza, all’arbitrarietà delle sorte.

Le regole possono cambiare, se sono sbagliate. E la corenza, si sa, è una grande virtù, ma per camminare, per andare avanti, occorre porre un passo avanti l’altro.Ma è altrettanto vero che la certezza delle regole (del diritto, e della pena) è uno dei fondamenti dello stato moderno.

Non dimentichiamocelo, mentre rimettiamo in ordine questo bistrattato paese.

E non dimenticatevelo.

Che anno è, che giorno è … (pandemia, anno due)

Un anno dopo, eccomi al punto di partenza.
Sono sempre a casa.
Il Festival lo stiamo pensando di nuovo in formato ibrido, perché se del doman non c’è certezza, dell’oggi tanto meno.
Qualche volta (poche) vado in ufficio per provare l’ebrezza di vedere delle persone in 3D e capire l’effetto che fa; altre volte (molte) mi spacco gli occhi e la schiena nelle innumerevoli riunioni online sulle centordici piattaforme che hanno preso il posto d’onore nel nostro quotidiano martirio.
In questo anno, nella pausa estiva in cui ci eravamo illusi che tutto sarebbe passato, sono riuscita a spostarmi fuori da Torino solo due volte. Due spazi di libertà conquistata metro per metro, grazie alla generosità di amici fraterni che abitano sul mare, o in mezzo alla natura selvaggia e disordinata, e che mi hanno accolta, ci hanno accolti, in una inedita versione di isolamenti forzati eppure così cari. Perché se cene, concerti, aperitivi non ci sono stati, la gioia di poter stare all’aperto, in mezzo alla natura e non confinati in quattro mura e un tetto spiovente, quella sì, ce l’hanno donata.
A marzo dell’anno scorso non pensavo che lo avrei potuto fare, a marzo di quest’anno mi chiedo se potrò nuovamente farlo.
Nell’anno in mezzo a questi due marzo, sono successe anche delle cose, perché la vita nonostante tutto è andata avanti anche senza che noi potessimo farci granché.
La più bella cosa che mi sia capitata è che tra noi è arrivata Luna, la mia terza bellissima nipote. Nata in piena ondata di pandemia, nata da sola, in un ospedale blindato, nata forte, come solo le guerriere neonate sanno essere. Il suo spirito di adattamento alla vita è stato il regalo e il monito più prezioso. Da 9 mesi sorride alle mascherine e si rabbuia a vedere i volti reali: che si deve aggiungere d’altro?
La più brutta è che sono morte delle persone care, altre sono state ricoverate e salvate per miracolo, altre si sono ammalate.
È capitato anche a me, nonostante le precauzioni e una vita monacale che a confronto quella di Monza, la monaca, fa la vita di Steve Mc Queen.
Nel mezzo, ho imparato tante cose.
A fare la zia a distanza, giocando dallo schermo di un tablet.
A rinunciare ad abbracciare mia madre, mio padre, mia sorella, i miei nipoti, i miei amici.
A mandare giù il sapore aspro dei baci negati.
A tollerare la paura negli occhi dei miei amici più fragili mentre mi avvicinavo per toccarli.
A gestire l’ansia di contagiare, ammalare, far morire, morire, di fare e di non fare, di resistere e di lottare.
Ad adattarmi al lavoro che è cambiato (quando c’è stato), ai diritti negati, agli spazi proibiti, alle giornate recluse, alle assenze, ai divieti, alla rabbia che si rapprende in abitudine.
A non andare al cinema, a non andare a teatro, a non andare a un concerto, a non andare al bar, a non andare al ristorante, a non fare in sintesi tutte quelle cose che la bacheca di Facebook mi ricorda ossessivamente come eventi cardine della mia vita di prima: eventi, cene, spettacoli, progetti, presentazioni, libri, incroci, mondi.
Ho imparato a vivere le cose quando capitano, a pensare di avere un tempo quando mi è stato detto che potevo averlo, a ridurre i programmi, azzerare i sogni, rimandare le speranze, barattando un futuro che già non avevo con un presente che dire precario è un gesto da ottimisti patentati.
In tutto questo resistere, in tutto questo stare a galla, qualche debole segnale ogni tanto è arrivato (i vaccini, i protocolli, le altalene dei colori). Ma la sensazione che sia troppo poco e che avvenga troppo lentamente, è fortissima.
È passato un anno e siamo di nuovo, di fatto, in zona rossa.
Mi ero autoconvinta che avrei saltato il festeggiamento del 44esimo compleanno rinunciando alle file di gatti in fila per tre per dedicarmi con brio al 45esimo. Me lo ero sempre pensato in giro per il mondo, dopo un mare di brindisi con amici e familiari, gente felice che ama stare al mondo e gioire per la vita. Invece quella che sta per arrivare sarà un’altra, maledettissima, primavera, senza nemmeno il conforto delle ugole stonate degli amici.
Non posso fare a meno di pensare che le cose cambieranno, che non potrà piovere per sempre, che la vita riprenderà il suo corso. Ma lo scollamento con la realtà che vivono le persone che governano la mia vita, dicendomi sempre più puntigliosamente come io la debba vivere, mi spaventa e mi opprime.
Spero, mi auguro, mi costringo a pensare, che NON CI ABITUEREMO.
Che manterremo sempre forte il senso della nostra umanità, la scintilla della lotta, la forza per ribellarci se riterremo che la misura sarà troppo colma.
Ho bisogno di crederci, anche se ogni tanto vacillo.
Perché, alla fine, penso che la primavera sia anche un po’ questo.
Il ritorno della speranza, affidata a un fiore che sboccia in un campo dove prima c’era solo silenzio.