Resistenza

Il mio amico e giornalista Antonio Cipriani mi ha fatto un regalo e ha scritto un pezzo bellissimo su remocontro.it, dedicato alla resistenza, alla rassegnazione e al prezzo della libertà.
L’articolo si apre con una citazione, che è l’incipit del mio libro “Claroquesí. Cartoline dalla rivoluzione” (lo potete comprare qui).

Leggetelo, perché fa bene al cuore.

 

Amori impossibili, ovvero le cannucce

Ho sempre odiato il billy, la scatoletta di tetrapack al sapore (flebile) d’arancia che andava di moda nella mia infanzia. L’odio si estendeva a tutti gli scatolotti affini, senza discriminazione di gusto o di marca, di contenuto o contenente, di sostanza o simbolo.
Succhi di frutta sottocosto o estathé, il mio era un disgusto chimico, egualitario e democratico.
Però ho amato moltissimo le cannucce.
Negli anni ho imparato a seguirne i percorsi evolutivi, gli adattamenti funzionali e morfologici.
La cannuccia non ha estetica, non vi fate distrarre dai colori. La cannuccia è sostanza. Dai rigidi tubolari cilindrici di formato mignon a quelli a due colori con il taglio obliquo sul lato che perforerà la pellicola dello scatolotto, dalla curva rigida per favorire la suzione al morbido soffietto.
La cannuccia è un miracolo di ingegno. Confesso che ancora oggi, d’estate, mi scopro ad acquistare almeno un succhino, ad aprirne la plastica della cannuccia e a scrutarne lo stato di avanzamento.
Non ho mai pensato che l’innovazione tecnologica passasse da qui.
Ma da sempre mi piace pensare al laboratorio di questa o quella azienda, e a quel qualcuno concentrato a studiare l’adattamento delle cannucce al palato. Signori vestiti di bianco circondati da bicchieri e cannucce, tutto il giorno. Per migliorare un istante delle nostre giornate.
Così immaginerete la mia gioia quando ieri ho aperto la confezione merenda del latte Arborea e ho trovato un piccolo miracolo: una cannuccia completamente nuova, sigillata dal lato della suzione ma con quattro fori ellittici che aderiscono perfettamente all’arcata plantare e alla lingua, rilasciando quantità variabili di liquido.
Come un ebete, sorridevo alla cannuccia.
Che poi dico, mi piacesse almeno, il latte. Ma chisseneimporta.
Da ieri ho un nuovo momento di trascurabile felicità.

cosedinessunaimportanza

_Diario di bordo.

cosedinessunaimportanza (28 ottobre 2015)

Ieri mi è capitato di camminare per la città e incontrare, in luoghi diversi e a orari diversi, donne in lacrime. Adulte o giovanissime, in pausa pranzo o sulla via del rientro a casa, accovacciate per terra come se il peso della telefonata in corso richiedesse una pausa dal moto, con passo marziale, con le cuffie o senza, impavide di traffico e pedoni, cani al guinzaglio e semafori. Unite dalle lacrime.
Mi ricordo di aver pensato che molto probabilmente piangevano per un uomo. Lo so, perché ho involontariamente origliato le schegge dei loro dialoghi, attraversando con loro il silenzio di un incrocio, nell’attesa di un verde che sanasse dolori dell’anima e del traffico.
Ho pensato che avrei voluto dire a ognuna di loro che non valeva proprio la pena, piangere per un uomo. Che erano belle, lì nel loro dolore, e tenere, e forti, e con un sacco di motivi per tornare alla loro vita, felici. Che probabilmente l’interlocutore all’altro capo del filo non lo sapeva nemmeno, non lo immagina nemmeno, quanto loro siano belle, grandi, forti, donne. O forse lo sa, ma non gli importa, o non del tutto, o non nella giusta quantità, probabilmente.
E poi ho pensato che una volta è successo anche a me.
Ero in un parco di periferia, sotto un diluvio primaverile. Una pioggia che avrebbe dovuto lavare via le macchie del dolore e della disperazione. Mi ricordo che stavo su una panchina in mezzo a questi alberi sparuti tra il cemento, fradicia di pioggia e di lacrime, e mi sembrava tutto così ingiusto ma anche un po’ poetico, questo stare lì, in mezzo all’acqua.
Mi ricordo che una signora mi si avvicinò, e mi disse proprio quelle parole, che no, non valeva la pena piangere così, per qualunque cosa io piangessi, per qualunque persona io lo facessi. Che io ero meglio, e che mi dovevo fidare di lei.
A un certo punto, ricordo, mi feci ragione delle sue parole. Mi asciugai per così dire gli occhi, ormai pieni di pioggia più che di lacrime e realizzai dove fossi, così come capita quando nei film il protagonista sta per morire e si vede dall’alto e capisce tutto della sua vita e giura che se non muore cambierà tutto, stavolta.
E mentre lo pensavo, mi sono ricordata però che di motivi per piangere ancora un po’ ce li avevo eccome. Per esempio perché nella mia sceneggiata romantica e dimentica del presente, ero uscita sì sbattendo la portiera dell’auto fuggendo nella pioggia del pineto di borgo vittoria, ma avevo dimenticato che al volante c’ero io, che la macchina era mia, anzi per la precisione di mio padre, e che le chiavi, insieme presumibilmente al soggetto maschile per cui versavo calde lacrime, erano saldamente ancorati all’interno dell’abitacolo.

Così mi ricordo che mi alzai dalla panchina e andai a riprendere in mano chiavi, vita e futuro, persuasa, più che dalla verita cosmica rivelatami dalla signora, dal fatto che mio padre poco avrebbe gradito il furto d’auto, ancorché accompagnato da uno strepitoso racconto romantico.

E da allora penso davvero che no, non valga la pena piangere per un uomo. Non per strada, non se sei una donna, giovane o vecchia o adulta, forte o debole ma bella della tua bellezza unica che hanno tutte le donne, e piena di risorse incredibili. Perché le donne sono fatte così. A un certo punto si ricordano che è finito il latte, che sta per iniziare la lezione, che il figlio è a tennis ad aspettarle. Che la macchina era la loro.

Così per fortuna si alzano, si asciugano le lacrime, e si scrollano il presente umido dalle scarpe.

Per questo, alla fine, non gliel’ho detto, che non valeva la pena.
Lo sapevano già.

50 vele al vento

Facebook mi ha riproposto stamattina una foto del 24 ottobre di 7 anni fa. Era l’autunno successivo al mio viaggio cubano, e in particolare era il giorno che precedeva la premiazione di un racconto, “Sportello 12”, che alcuni anni dopo sarebbe confluito in Boris e lo strano caso del maiale giallo.
Quel 24 ottobre pioveva e la foto di Facebook ritraeva quello che potevo osservare dai vetri del chiosco del Poetto, un lembo di spiaggia punteggiato dalla pioggia leggera, due passanti stretti in un abbraccio, 50 vele nel vento di tramontana.

Non lo sapevo, ma il giorno dopo sarebbe stato l’inizio e anche la fine di molte cose. Tra quelle che sono iniziate, anzi, che sarebbero iniziate di lì a poco, c’è l’amicizia con Antonio Cipriani e Valentina Montisci.
In mezzo le conferenze spettacolo dedicate al giornalismo di guerra, le puntate cubane su Globalist.it, la Milano dell’Isola, Torino e l’associazione Pretesto Torino, il Bar Pietro – piola sardo-veneziana, e i sorsi rossi, e ancora Boris, la militanza resistente, viva gli sposi a Rimaflow, Claroquesí. Cartoline dalla rivoluzione e la Toscana, finalmente.

Per questo l’appuntamento del 2 novembre 2018 è un po’ come se fosse un compleanno. Il compleanno di un’amicizia nata tra i libri e portata lontano.
Per questo sono affezionata a quella foto sulla spiaggia, con le gocce di pioggia sul vetro appannato. Perché contiene la vita che ancora doveva venire, perché contiene questo bellissimo presente.

Assenze

È passato un anno.
Dalla tua morte e da quando l’ho saputo. Erano giorni che stavo appesa al wifi, nei modi rocamboleschi in cui si può essere appesi quando si è dall’altra parte del mondo. Ricordo benissimo quando Elisa mi ha detto che eri sprofondato in un sonno senza ritorno. Che il tuo respiro era però sereno. Che ti erano vicino. Che ti sussurravano all’orecchio che ti volevamo bene, tutti quanti. E io ero appesa a questo filo, e mi chiedevo il peso dell’esserci e del non esserci quando dobbiamo andare, se ci sentivi davvero, se eri sereno davvero. Joe dormiva buttato su una fila metallica di sedie di un gate qualunque dell’aeroporto deserto di Ho Chi Minh. Fuori il cielo era pesante, livido; ogni luce era appesantita dalla pioggia battente. Eravamo da soli, spersi in un non luogo, sospesi nel tempo e nell’attesa. Di partire, di sapere. Ero da sola, a camminare avanti e indietro per la paura che il nostro volo non partisse, che la notte inghiottisse anche noi, oltre a te. Ripetevo a me stessa istruzioni pratiche: cambiare scheda telefonica, trovare soldi nuovi, trovare tuk tuk, arrivare in albergo, connettermi. Una notte interminabile, fisica, piena di niente. Mi faceva paura. Una paura condita dal senso di colpa. Stavo per arrivare in uno dei luoghi che avevo sognato da sempre, con il cuore gonfio di dolore. Siamo saliti su un volo semivuoto, siamo atterrati in una notte caldissima e silenziosa, Chan ci aspettava fuori con il Tuk Tuk, i vestiti si attaccavano addosso per il vento umido. Visioni in penombra, pensieri, fame, sonno, sete.
Quando finalmente mi sono addormentata, quella sera piovosa e calda, ero in un nuovo altrove.
Non sapevo ancora, lo avrei saputo il mattino dopo. Ma ti ho sognato, quella notte. Ho sognato che eravamo tutti a tavola. Stavi bene. Senza ferite, senza menomazioni, senza dolore. Ridevi forte, sorridevi. Mi sono svegliata con la notizia che te ne eri andato. E ora so per certo che in quel sogno, eri venuto a salutarmi. Avrai pensato che ti avevo fatto fare una faticaccia, tu che non amavi quasi più uscire di casa. Ti avevo costretto a venire fino in Cambogia per il nostro addio.

Il giorno dopo camminavo tra le radici secolari degli alberi immensi che imprigionano i templi di Angkor. Silenzio, verde, quiete. Mentre eravamo in bilico sulle pietre calde di un tempio, abbiamo trovato delle bacchette di incenso e un piccolo altare. Uno di quelli disseminati ovunque, dedicati a Buddha, dedicati agli uomini.
Ci siamo guardati, ne abbiamo accesi due. In silenzio, mentre Joe fumava una sigaretta, seduto sul bordo di un tempio nella giungla dall’altra parte del mondo, abbiamo aspettato che si spegnessero, piano. Con le mani giunte, con la natura immensa e immortale innanzi a noi, ti abbiamo salutato a nostro modo.
Poi siamo tornati e c’è stato tutto il resto. Veloce, doloroso, a suo modo inevitabile e necessario.

È passato un anno.
Remedios ha imparato a nuotare, zio. Fa anche i tuffi sotto l’acqua senza bere (quasi mai).
Ettore ha una carrozzina nuova fiammante, la chiamiamo “spider”, e in effetti è un prodigio come lui che ride tantissimo in particolare quando butta via gli oggetti che ha imparato ad afferrare.
Adora la musica come te, ti renderà orgoglioso.
Sister si è fatta due tatuaggi bellissimi, madonna quante discussioni avremmo fatto su questo tema con te.
Papà costruisce circhi volanti in salotto, appendendo pupazzi al lampadario: che te lo dico a fare, lo conosci, fa quello che faceva con noi, al cubo.
Mamma ha fatto la bagna cauda per la prima volta dopo 40 anni. Ho pensato che quando si rompe qualcosa, si aggiusta qualcos’altro, per compensazione. L’abbiamo dedicata a te, e abbiamo stappato un tuo barolo del ’75. Non ti offendere, era ora di farlo. E tu ci hai sempre detto che le cose vanno vissute, godute. Ti abbiamo preso alla lettera. Le manchi tanto, più di quanto tu possa immaginare.
Joe ha restaurato il comò della nonna e già che c’era pure quello di Coassolo. Stravede per il tuo libro “come aggiustare tutto”, hai creato un mostro.
Abbiamo regalato i tuoi libri alla biblioteca della città della salute e ai detenuti del carcere di Saluzzo. Glieli abbiamo portati io e papà una mattina piovosa d’autunno… che se il carcere è triste, pensa con la pioggia e la nebbia… Hanno fatto mettere una piccola targa per te, e hanno riso sommessamente quando ho detto timidamente che tu amavi i legal thriller e i libri di squartamenti vari.
Io ho organizzato un festival culturale, ho finalmente pubblicato il libro su Cuba, ho pianto abbastanza, riso molto, ho cercato il mare tutte le volte che ho potuto.
Solo l’inglese non l’ho ancora imparato bene, e con la chitarra va ancora così così. La suono sempre e solo il 6 di gennaio, dopo i propositi di rito di ogni inizio d’anno.
Ah, Salvini è andato al governo. È ministro dell’interno ma sembra il premier. Non avrei mai pensato di dirlo, ma rimpiango le nostre discussioni su Silvio. Non ridere ti prego. Anzi, ridi va, che ne abbiamo bisogno quaggiù.
La tua Alfa Sport a è ancora in garage. Forse riusciamo a farla rivivere, stiamo pensando a come fare. Se penso a quando ci incastravi dentro la nonna con la pelliccia e le scarpe da tennis, ancora rido tantissimo da sola.
E ti penso.
Non è passato un giorno senza che io ti abbia pensato, zione.
Non è passato giorno senza che tu mi sia mancato.
Ma so che in fondo lo sai anche tu.Angkor

1 maggio, su coraggio!

1maggio

Questo articolo è comparso per la prima volta qui, con il titolo “In corteo per i diritti degli altri, i diritti di tutti”. Era il primo maggio 2013, oggi è lo stesso giorno del 2018, e vale ancora. Parola per parola.

***

Ho camminato dentro tanti primi maggio.
Quelli dell’adolescenza, vestita più o meno come ora, jeans e sciarpa al collo, a mostrare gli occhi dentro la piazza piena di gente. Dietro le bandiere della Gioc, quella formazione operaria e cristiana che ha accompagnato gli anni della mia formazione. Difendevo, difendevamo, i giovani lavoratori. Quelli usciti prematuramente dal circuito scolastico, i lavoratori senza diritti, quelli che entravano in una dimensione di adultità senza nemmeno averci fatto sopra un pensiero cosciente. Erano gli anni di servizio dentro i Cigd, Centri informazione giovani disoccupati, di lavoro sulla strada, assieme a quelli che persino le parrocchie scartavano, troppo inquieti anche per la pastorale.

In quei primi maggio, si camminava assieme, ai giovani lavoratori. Non mi toccava ancora, quella dimensione, non la capivo nemmeno bene. Io studiavo, percorrevo anni liceali con la sicurezza di chi sta scegliendo il futuro, e non – come erroneamente pensavo – di chi era scelto dalla vita.
Poi sono venuti gli anni universitari. I maggi combattenti, la fatica nel ritrovarsi fuori da una dimensione associativa e dentro un universo cangiante, in cui cercare un posto proprio, identitario, nuovo.

Non l’ho mai trovato, non ho mai avuto più una bandiera dietro cui sfilare.

Sono stati anni di portici, a veder passare gli altri, invidiosa per quelle note convinte di lotta che partivano da gole militanti, sicure di stare dalla parte della ragione, quale essa fosse.
Poi sono arrivati i primi maggio da cococo e cocopro. Quando sfilare in corteo era un diritto quasi usurpato. Lavoratori per niente, lavoratori senza.  Primi maggio a inseguire un senso del lavoro che ti cambiava sulla pelle, e su cui poco potevi, tra le retoriche rosse e l’isolamento di chi non ha difese, voce, tavoli di contrattazione.
Il lavoro dipendente e la consapevolezza del ruolo sono andati di pari passo. In quei primi maggio si respirava aria nuova, eppure lontana mille miglia da tutte le anime che incontravo. Le anime di chi si sentiva fuori, lontano, ex.

Le anime di una piazza attraversata da nuove inquietudini. Non più sanpietrini ma un’unità che stentava a decollare, una frammentazione rossa, specchio di una incapacità a raccogliersi insieme per cambiare qualcosa. Quasi contasse di più quella bandiera tenuta sù da dieci mani, che il senso di un percorso di avvicinamento tra diversi, per far sentire una voce nuova, matura, consapevole, presente.

E poi i primi maggio in differita, con la comunità Kurumuny nei frantoi salentini, nelle miniere dismesse dell’inglesiente, nelle strade francesi, a sentire che effetto fa, tradire il corteo e cercare un altro senso.

Oggi, che lavoro di nuovo ai margini, nel limbo colpevole di chi è mantenuto dallo stato, di chi è vittima e prigioniero di un futuro ipotecato, ma anche di chi cerca un nuovo senso nell’esserci, oggi attraverso il mio ventiduesimo primo maggio in piazza, guardo di nuovo le facce che mi sfilano accanto, di fronte, a lato.

Non ho ancora trovato il mio posto, nel corteo. Lo percorro per tradizione, ormai, più volte, avanti e indietro, sul selciato e sotto i portici, saluto amici, stringo mani, passeggio tra la città che guarda come se a sfilare fossero carri, e non diritti lesi.
Non lo trovo, il mio posto, perché forse non ce n’è mai stato uno, e ce ne sono sempre stati molti, invece.

Forse perché il senso di questo esserci, qui, in strada, dovrebbe essere quello di avere una bandiera unica sotto cui raccoglierci, tutti insieme: gli immigrati che rivendicano il diritto abitativo, le comunità straniere che dimostrano il proprio esserci – qui ed ora – a una città che fatica ad aprirsi al multiculturalismo delle potenzialità, e non solo dell’assistenzialismo.

Una bandiera unica, per chi il lavoro l’ha perso, per chi ancora non ce l’ha, per chi rischia in fabbrica, per chi rimpiange un passato di sfruttamento che per fortuna non tornerà, per chi ha fondato la propria identità su un mondo del lavoro che vive oggi di valori diversi.  Una bandiera per far tornare i partiti vicini alle persone, una bandiera per le associazioni, una bandiera per i cittadini, i cani, i palloncini, Bella Ciao.

Il primo maggio è la festa dei diritti negati, violati, infranti.
È la festa della rivendicazione, dell’attenzione verso il diverso, della testimonianza.

È la festa degli amici che ritrovi, del pranzo dei lavoratori, di una comunità urbana che si scopre un po’ più umana.
È la festa della speranza e dell’impegno, della lotta e della storia, del passato e di un futuro che non potrà essere diverso se non si parte dal modo in cui lo si costruisce, anche qui, nella via stretta che porta in piazza.
Lungo questo viaggio lungo 22 primi maggio, mi sono chiesta più volte quale fosse il mio senso.
E per una volta la risposta ce l’ho.

Il mio primo maggio è la difesa dei diritti degli altri, dei diritti di tutti. Perché è il solo modo che conosco per fare in modo che quei diritti un giorno riguardino anche me.

Per questo continuo a camminarci in mezzo, a questo corteo.
Perché solo difendendo un bene collettivo, si può avere la certezza di difendere anche se stessi.

Mai il contrario.

Claroquesí. Cartoline dalla rivoluzione

Oggi esce Claroquesí . Cartoline dalla rivoluzione.
Lo pubblica Antonio Tombolini Editore, nella nascente collana Roads, guidata da Giulia De Gasperi, paziente, appassionata e professionalissima editor con cui tanto ne ho parlato, nelle nostre lunghe conversazioni oltre oceano – io a Torino, lei in una piccola isola a largo delle coste del Canada. Ci sono molto affezionata, per mille motivi: mi ha tenuto compagnia mentre prendeva corpo, nelle notti febbrili dopo il mio rientro dall’Isola, è diventato parole, e poi storie, e poi racconto prima nella mia mente, poi sulle pagine bianche di un foglio digitale, tra le dita che si muovevano sulla tastiera. Grazie ad alcuni amici, che oggi ringrazio (Antonio Cipriani e Valentina Montisci) è diventato un racconto d’estate di alcuni anni fa. E oggi, finalmente, è un libro, di cui sono orgogliosa, perché ha cambiato il modo con cui guardo il mondo, rendendolo ancora più umano, pieno dei dubbi che vivificano una vita e delle sorprese inaspettate che rendono il viaggio un’esperienza di cambiamento. Non so se qualcuno abbia mai detto che si scrive sempre perché qualcuno ci legga, prima o poi. Io – che normalmente scrivo per me stessa, come urgenza vivificante, e come modo di stare al mondo – penso che se non lo ha detto nessuno, qualcuno dovrebbe dirlo. Riprova ne è che il motore per la stesura di Claroquesí  è stato il pensiero che a leggerli sarebbe stata una persona speciale, che mi aveva spinto a sgranare gli occhi sul mondo che avrei visitato per la prima volta. Oggi a questa persona va un pensiero e un ringraziamento, pubblicamente e discretamente, come noi sabaudi amiamo fare.

***

Claroquesí è nato sette anni fa, dopo un viaggio dentro le mie convinzioni di giovane donna, militante e occidentale. È nato per il desiderio di mettere su carta i pensieri affiorati lungo la Carretera Central, dentro i negozi vuoti, i mercati razionati, il profumo di pane, la luce scarnificata delle città di notte ma anche dentro la musica allegra del ron, l’ospitalità degli sconosciuti, la condivisione del poco per tutti. Non un libro di viaggio, non un libro politico, non un romanzo, non una cronaca, ma tutte queste cose insieme. Per provare a intrecciare con la narrazione il possibile delle storie quotidiane e le zone d’ombra della Storia, nel limbo sospeso della fine del Periodo Especial. Un modo per raccontare disillusione, speranze e, soprattutto, un altro modo di stare al mondo.

Claroquesí è un grazie sincero, dedicato agli incontri piccoli e grandi che mi hanno restituito un presente più consapevole.

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Se qualcuno volesse acquistare “Claroquesí. Cartoline dalla rivoluzione“, potrà farlo sullo store di Antonio Tombolini Editore (in formato carta e ebook) oppure su amazon.it

Il libro che sarà

Non amo particolarmente guidare.
Amo farlo però lungo le strade assolate della bassa Puglia, lungo il tacco dello stivale, in quel nugolo di strade che si fanno posto tra campi e muretti a secco, sotto il cielo basso di nuvole piene e orizzonti ampi. Mi piaccono gli ulivi che si rincorrono a destra e a sinistra, le campagne che ritornano verdi e stampano contrasti sui cieli di pioggia, il profumo di mare che arriva a tratti insieme agli odori della macchia, e che anche d’inverno stupisce l’olfatto.
Mi piace guidare verso le case delle persone a cui voglio bene, in questa terra che mi ha accolta e che mi restituisce il senso della possibilità, una terra in cui sta crescendo un progetto lungo e bello, fatto di donne, per le donne, con le donne.
Per questo io, S. e la piccola unenne A. ce ne siamo andate in giro a incontrare le protagoniste delle storie che vorremmo raccontare. Donne che hanno visto secoli diversi avvicendarsi, donne che hanno speso una vita in cui dentro ci stanno mille vite, donne lavoratrici e donne madri, perse nei campi di tabacco e nelle fabbriche, nelle cucine in penombra delle masserie e nel dolore dell’emigrazione, donne che sono tornate perdendo qualcosa, donne che hanno riscoperto la libertà con pazienza, aspettando che prima ce l’avessero tutti gli altri, donne che sono rimaste, donne che sono. E così siamo state a Corsano, a sentire le storie delle tabacchine di Ginosa e di chi è emigrata in Svizzera perché qui non c’era futuro. Siamo state a Guagnano a sentire le voci simbolo delle 250 donne che nel 61 scioperarono per il lavoro e per una emancipazione fatta di identità ancor prima che di possibilità. Siamo state a Corigliano d’Otranto dentro gli occhi di Angela che di anni ne ha 91 e siede all’ombra della masseria di suo figlio, con gli occhi che ridono nel pensare al destino come futuro, prima e al posto di ogni scelta possibile. Siamo state da Ulla e dentro il suo tempo di donna immigrata, straniera per amore, salentina per adozione, che ha fatto di una terra la sua casa, portandoci famiglia e cuore, e provando a costruirci il resto.
E siamo state in treno, sulla Maglie-Gagliano del Capo lungo la ferrovia Sud-Est, a cercare nei sedili di pelle e nei finestrini appannati di pioggia e umidità il senso di un antico passare per le campagne, tra paesi e vite, tra case cantoniere e rotaie lente come le nuvole.
Bello questo libro che nasce dentro i legami delle persone, che si alimenta di reti e di amici, che si estende nel tempo dentro il tempo delle persone, coinvolgendole in una storia che tutte ci riguarda.

Chi se ne va che male fa

La notizia è arrivata così.
In una mattina serena, mentre prendevo l’aereo che mi avrebbe riportato a casa dopo una manciata di giorni salentini.
Se dovessi descrivere quante emozioni ho provato in quel momento, sarei oggettivamente in difficoltà.
Un po’ per la casualità della scoperta, affidata a una confidenza nata tra quelle mura e che ha portato alla rivelazione della morte di Federica, che altrimenti forse mai avremmo saputo.
Un po’ per la sorpresa, quella di ricevere notizie di un mondo che ho attraversato per poco tempo, con tanti dubbi e molta umanità.
Un po’ per la distanza che sembra oggi siderale, da quelle vite così eguali alla mia eppure così diverse.
Oggi penso solo pensieri sconnessi.
In qualche modo, quando si affrontano percorsi come questo – laboratori o esperienze formative in contesti reclusi – è difficile resistere alla tentazione di sentirsi “i buoni”. Forse è inevitabile, altrimenti il gioco delle parti sociali non sarebbe possibile, e nemmeno la sua rappresentazione fatta di inclusione/esclusione, legittimo/illegittimo, buono/cattivo, che il carcere rappresenta in modo così paradigmatico. Un gioco, per noi operatori sociali, per certi versi ancora più stridente, dato che l’oggetto dei nostri incontri nel carcere di Torino era proprio il pregiudizio dello sguardo, la superbia che inquadra e definisce i destini delle persone in base all’apparenza, il “chi è chi” deciso dalla superficie dell’abitudine e, per converso, tutto il lavoro contrario che abbiamo provato a fare con le ragazze detenute, un lavoro di approfondimento dello sguardo, della conoscenza reciproca, della comprensione dei meccanismi umani che ci portano a definirci diversi o uguali, che ci portano a provare paura o solidarietà, rabbia o inclusione.
Non è stato un percorso facile: non lo è mai, ma in questo caso è stato complicato dall’appartenenza di genere, dallo specchio feroce che i nostri incontri rappresentavano per ciascuna di noi, recluse e libere.
Ci abbiamo provato; per poco tempo, per il giusto tempo, questo non potremo saperlo mai: tra quelle mura si fanno i conti con la disponibilità (nostra, nell’andare, loro, nel mostrarsi), la vita che continua (fuori per noi, dentro, per molte tra loro), la convenienza (nostra, nel proporci e nel proporre, loro, nell’aderire), il senso del futuro, la difficoltà a interrompere la routine, che banalmente esiste in qualunque contesto, anche quello meno scontato.

Non mi sento peggiore, non mi sento migliore, dopo questa esperienza. E non mi sento colpevole di non aver fatto abbastanza, e non mi sento felice di aver fatto quel che ho potuto.
Le vite, le nostre, tutte, sono più complicate dell’attimo in cui ci si incontra, e dei motivi per cui si sceglie di stare, o di andare.

Federica se ne è andata per un’overdose, e a me, a noi, oggi restano solo tante domande, insieme a un senso di stanchezza e di scacco – ingiustificato ma, umanamente, inevitabile – che riporta il pensiero a quanto sia davvero una soluzione, il carcere, o quanto invece sia un modo per rinchiudere tutti quei problemi che, come società, non sappiamo risolvere.
Ciao Federica, buon viaggio.

#Metoo

Facevo quinta liceo.
Non so perché quel giorno decisi di andare a scuola con il tailleur, io che portavo i pantaloni praticamente dal primo anno di asilo.
Ma era verde acido, era fatto su misura, ed era bellissimo.
Quel giorno c’erano due ore di disegno tecnico. Compito in classe, assonometrie, chine, ecoline, lametta per cancellare righe altrimenti indelebili.
La faccio breve: per contrastare la poca comodità della gonna a tubino mi sedetti in punta di sedia, così da governare bene squadrette e compassi.
Il prof si avvicinò, scambiammo battute che non ricordo, poi – senza che potessi immaginarlo, pensarlo, perfino temerlo – si sedette a cavalcioni sulla mia stessa sedia, tra lo schienale e la mia schiena. Appiccicato al mio corpo. Diventai di ghiaccio. Provai un misto di imbarazzo e colpa, rabbia e timore. Lui, schiacciato su di me, si godette la mia totale incapacità di reagire e poi, dopo avermi soffiato sotto la nuca, mi sussurrò nell’orecchio: “E adesso protesta pure”.

Non capitò altro, ma ancora mi indigno con me stessa per quel gelo nelle vene che mi spense in gola la protesta.

#MeToo.
#QuellaVoltaChe

 ***

Questo breve post è comparso sulla mia pagina facebook il 16 ottobre 2017.  per cui due giorni dopo è comparso un altro post, questo.

 

La vicenda che ho narrato brevemente è ovviamente più complessa di quanto fb permetta, ma io me ne infischio degli algoritmi e delle norme di social editing, e provo a riprenderla per piani differenti. Perché da quello scritto sono nate parole, mail, telefonate e mi sembra giusto restituire la ricchezza di questi scambi.

Il motivo per cui ho raccontato quell’episodio lontano si collega sicuramente al momento attuale: le vicende e gli scandali emersi intorno al grande produttore Hollywodiano, che ha mietuto vittime sessuali peggio che la peste e in particolare le reazioni suscitate nel nostro paese sessuofobo intorno alle parole di tutte quelle donne che, a distanza di tempo, si sono sentite di raccontare di episodi e abusi  sepolti nel loro passato, in segno di solidarietà, di denuncia, di testimonianza.
Non che mi interessi nello specifico delle attrici americane, o di Asia Argento, o del produttore in sé. Ma l’episodio si porta dietro tante di quelle implicazioni e di piani di pensiero che mi sono sentita di intervenire.
L’ho fatto raccontando un episodio per me superato, lontano nel tempo, forse ancora un po’ urticante nel ricordo, ma nulla di più.
Non lo dico per ridimensionarlo, ma per circoscriverlo in un percorso per fortuna più ampio e sano di vita successiva.
Quello che mi interessava raccontare, citando quell’episodio spiacevole, era soprattutto la possibilità di evidenziare tre cose:
– che si può scegliere di raccontare a distanza di anni un evento, avendo il diritto di farlo come di non farlo, di farlo dopo o di farlo prima, di tacere o di condividere, senza per questo dover essere giudicati (e qui, non so se sono riuscita subito nell’intento, ma è servito per dei chiarimenti successivi, e quindi bene così);
– che anche persone strutturate e capaci di introspezione, analisi, reazione, possono vivere o subire esperienze improvvise e scioccanti, in grado di alterare o minare aspetti della propria personalità e che sono quasi sempre inevitabilmente legati alla sfera intima, personale o sessuale, e che quasi sempre – ma non sempre, va detto – sono donne;
– che lo stigma va gettato sullo sconfinamento di ruolo, sulla disparità di potere tra le parti in atto, tra l’asimmetria di relazione e di strumenti. Dovuta a mille fattori e circostanze: l’età, la professione, la condizione economica ecc. ecc. ecc.
Faccio una breve parentesi sul personaggio in sé, di cui poco mi importa in senso stretto. L’ho sempre ritenuto un poverino, affamato di un sesso insano e pruriginoso, incapace di godere se non dal buco della serratura di sguardi/gesti/attenzioni non richieste.
Un “uomo” che provava piacere a propinare imbarazzo, forte del ruolo giocato dietro il sottile velo del sottinteso, del fraintendimento, della provocazione, pronto sempre a ritrattarla, nasconderla, mascherarla.
Se quel giorno o qualunque altro giorno mi avesse fatto un’avance, io avrei saputo come reagire. Se la dinamica della relazione si fosse giocata solo sull’asse maschio/femmina, uomo/donna, sulla seduzione o sulla provocazione sessuale, avrei avuto gli strumenti per reagire.
Invece lui quel giorno scelse un altro piano,quello del potere e della disparità di ruolo dettato dal suo essere docente: sconfinò in un campo sessuale da una posizione asimmetrica, esercitando una violenza psicologica sottile, a cui difficilmente si riesce a reagire. Perché non ce lo si aspetta, perché si è impreparati, perché si è piccoli.
E questa condizione di piccolezza, di “non adultità” rispetto alla dinamica relazionale, si replica nella vita ogni volta che l’uomo (o l’essere umano esercitante un potere) che si ha davanti sceglie di usarlo su di te in modo improprio. Succede ai bambini/alle bambine con i preti negli oratori, succede a scuola o all’università con insegnanti e docenti, succede negli ospedali con i medici, succede nel posto di lavoro con il capo/a. Che ci siano partite di scambio o meno, che ci sia in gioco un tornaconto o meno.
Nel mio caso, la rabbia furibonda che questo episodio ha generato nel tempo investe un altro aspetto, molto privato e personale: quel docente in quel gesto offese la mia femminilità nascente, sporcando il moto spontaneo di una persona come me per cui la testa veniva prima del corpo, la persona prima del sesso che esprimevo. Lui riconobbe la femminilità in quella mattina e la trattò nell’unico modo in cui riusciva a gestirla: ricacciandomi in un ruolo non di donna a cui fare un complimento ma una preda da schiacciare, esercitando un potere sbilanciato.
Questo mi turbò e mi offese. Aspettò, nemmeno consapevolmente, credo, che io fossi in una condizione di leggerezza, di minore difesa, per approfittare del suo ruolo, sconfinandolo.
La mia reazione, uguale a quella di altri momenti di imbarazzo simile a questo, fu di fare finta di nulla. Scelsi di non dare importanza, a lui e a quello che stava facendo, lo ignorai, pensando costruttivamente che non dargli soddisfazione mostrando il mio sconcerto fosse un modo per tenergli testa. Non era così, ma l’ho appreso con il tempo, diventando donna, cosa che all’epoca non ero.
Perché non ne ho parlato? Non lo so.
Forse in quel momento non ne colsi appieno le conseguenze. Forse perché tutti sapevano come era fatto quel docente, e nessuno nei fatti aveva fatto granché per sanzionare i suoi comportamenti, se non riderne. Lo si trattava come un personaggio buffo, innocuo, un po’ maniaco.
Forse non lo feci perché in quel momento avevo altri pensieri per la testa, altre situazioni da sciogliere legate alla mia vita da adolescente tutta testa, con dieci in quasi tutte le materie ma poca esperienza dei fatti della vita, conseguenza seccante della mia età anagrafica. In altre parole, ero intelligente, spaccavo i marroni sulle questioni di principio e di lana caprina ma ero sempre e comunque una ragazzina.
Diciamo che quell’episodio non aiutò a corroborare una bella immagine degli uomini, in particolare quelli adulti, che – forse in virtù della mia maturità intellettuale – tendevo comunque ad attrarre. Per fortuna, nel mio caso mai ci fu violenza, coercizione fisica, abuso, ma ho sempre ritenuto, e ritengo ancora oggi, che lo sconfinamento di campo e di ruolo sia altrettanto pregna di gravità.
Perché l’equazione mentale di quella “me” adolescente, allora, fu più o meno “è colpa mia. Sono io che seduco/attraggo/accetto persone che sconfinano i ruoli che rivestono, perché ne so cogliere l’umanità”. E sti cazzi, ora lo so che non è così, che le relazioni non sono così, che i rapporti tra i sessi non sono così, o che non lo sono necessariamente, o che almeno vanno scelti, scientemente, così – e non solo subiti. E non importa, che ci sia un tornaconto, non importa che non ci sia. Lo squilibrio delle parti fa saltare ogni altro “se” e ogni altro “ma”. Punto.
Ecco, questo c’era dietro quel breve racconto.
Perché non l’ho detto prima, perché non l’ho detto in quel momento?
Perché non ne ero in grado. Non ne ero capace, perché avrei dovuto smuovere temi immensi che la mia età acerba non era in grado di gestire, e che la mia superbia intellettuale non poteva tollerare.  Così scelsi di ignorarlo. Forse sbagliai (per il caso in sé, sicuramente, per la mia tenuta mentale, allora, forse fu meglio così), ma tant’è.
E oggi, sono felice di parlarne, perché scrivere serve, leggere serve, ricucire serve. E importa poco, davvero poco, se uno sceglie di farlo presto o tardi, e del perché.