Facevo quinta liceo.
Non so perché quel giorno decisi di andare a scuola con il tailleur, io che portavo i pantaloni praticamente dal primo anno di asilo.
Ma era verde acido, era fatto su misura, ed era bellissimo.
Quel giorno c’erano due ore di disegno tecnico. Compito in classe, assonometrie, chine, ecoline, lametta per cancellare righe altrimenti indelebili.
La faccio breve: per contrastare la poca comodità della gonna a tubino mi sedetti in punta di sedia, così da governare bene squadrette e compassi.
Il prof si avvicinò, scambiammo battute che non ricordo, poi – senza che potessi immaginarlo, pensarlo, perfino temerlo – si sedette a cavalcioni sulla mia stessa sedia, tra lo schienale e la mia schiena. Appiccicato al mio corpo. Diventai di ghiaccio. Provai un misto di imbarazzo e colpa, rabbia e timore. Lui, schiacciato su di me, si godette la mia totale incapacità di reagire e poi, dopo avermi soffiato sotto la nuca, mi sussurrò nell’orecchio: “E adesso protesta pure”.
Non capitò altro, ma ancora mi indigno con me stessa per quel gelo nelle vene che mi spense in gola la protesta.
#MeToo.
#QuellaVoltaChe
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Questo breve post è comparso sulla mia pagina facebook il 16 ottobre 2017. per cui due giorni dopo è comparso un altro post, questo.
La vicenda che ho narrato brevemente è ovviamente più complessa di quanto fb permetta, ma io me ne infischio degli algoritmi e delle norme di social editing, e provo a riprenderla per piani differenti. Perché da quello scritto sono nate parole, mail, telefonate e mi sembra giusto restituire la ricchezza di questi scambi.
Il motivo per cui ho raccontato quell’episodio lontano si collega sicuramente al momento attuale: le vicende e gli scandali emersi intorno al grande produttore Hollywodiano, che ha mietuto vittime sessuali peggio che la peste e in particolare le reazioni suscitate nel nostro paese sessuofobo intorno alle parole di tutte quelle donne che, a distanza di tempo, si sono sentite di raccontare di episodi e abusi sepolti nel loro passato, in segno di solidarietà, di denuncia, di testimonianza.
Non che mi interessi nello specifico delle attrici americane, o di Asia Argento, o del produttore in sé. Ma l’episodio si porta dietro tante di quelle implicazioni e di piani di pensiero che mi sono sentita di intervenire.
L’ho fatto raccontando un episodio per me superato, lontano nel tempo, forse ancora un po’ urticante nel ricordo, ma nulla di più.
Non lo dico per ridimensionarlo, ma per circoscriverlo in un percorso per fortuna più ampio e sano di vita successiva.
Quello che mi interessava raccontare, citando quell’episodio spiacevole, era soprattutto la possibilità di evidenziare tre cose:
– che si può scegliere di raccontare a distanza di anni un evento, avendo il diritto di farlo come di non farlo, di farlo dopo o di farlo prima, di tacere o di condividere, senza per questo dover essere giudicati (e qui, non so se sono riuscita subito nell’intento, ma è servito per dei chiarimenti successivi, e quindi bene così);
– che anche persone strutturate e capaci di introspezione, analisi, reazione, possono vivere o subire esperienze improvvise e scioccanti, in grado di alterare o minare aspetti della propria personalità e che sono quasi sempre inevitabilmente legati alla sfera intima, personale o sessuale, e che quasi sempre – ma non sempre, va detto – sono donne;
– che lo stigma va gettato sullo sconfinamento di ruolo, sulla disparità di potere tra le parti in atto, tra l’asimmetria di relazione e di strumenti. Dovuta a mille fattori e circostanze: l’età, la professione, la condizione economica ecc. ecc. ecc.
Faccio una breve parentesi sul personaggio in sé, di cui poco mi importa in senso stretto. L’ho sempre ritenuto un poverino, affamato di un sesso insano e pruriginoso, incapace di godere se non dal buco della serratura di sguardi/gesti/attenzioni non richieste.
Un “uomo” che provava piacere a propinare imbarazzo, forte del ruolo giocato dietro il sottile velo del sottinteso, del fraintendimento, della provocazione, pronto sempre a ritrattarla, nasconderla, mascherarla.
Se quel giorno o qualunque altro giorno mi avesse fatto un’avance, io avrei saputo come reagire. Se la dinamica della relazione si fosse giocata solo sull’asse maschio/femmina, uomo/donna, sulla seduzione o sulla provocazione sessuale, avrei avuto gli strumenti per reagire.
Invece lui quel giorno scelse un altro piano,quello del potere e della disparità di ruolo dettato dal suo essere docente: sconfinò in un campo sessuale da una posizione asimmetrica, esercitando una violenza psicologica sottile, a cui difficilmente si riesce a reagire. Perché non ce lo si aspetta, perché si è impreparati, perché si è piccoli.
E questa condizione di piccolezza, di “non adultità” rispetto alla dinamica relazionale, si replica nella vita ogni volta che l’uomo (o l’essere umano esercitante un potere) che si ha davanti sceglie di usarlo su di te in modo improprio. Succede ai bambini/alle bambine con i preti negli oratori, succede a scuola o all’università con insegnanti e docenti, succede negli ospedali con i medici, succede nel posto di lavoro con il capo/a. Che ci siano partite di scambio o meno, che ci sia in gioco un tornaconto o meno.
Nel mio caso, la rabbia furibonda che questo episodio ha generato nel tempo investe un altro aspetto, molto privato e personale: quel docente in quel gesto offese la mia femminilità nascente, sporcando il moto spontaneo di una persona come me per cui la testa veniva prima del corpo, la persona prima del sesso che esprimevo. Lui riconobbe la femminilità in quella mattina e la trattò nell’unico modo in cui riusciva a gestirla: ricacciandomi in un ruolo non di donna a cui fare un complimento ma una preda da schiacciare, esercitando un potere sbilanciato.
Questo mi turbò e mi offese. Aspettò, nemmeno consapevolmente, credo, che io fossi in una condizione di leggerezza, di minore difesa, per approfittare del suo ruolo, sconfinandolo.
La mia reazione, uguale a quella di altri momenti di imbarazzo simile a questo, fu di fare finta di nulla. Scelsi di non dare importanza, a lui e a quello che stava facendo, lo ignorai, pensando costruttivamente che non dargli soddisfazione mostrando il mio sconcerto fosse un modo per tenergli testa. Non era così, ma l’ho appreso con il tempo, diventando donna, cosa che all’epoca non ero.
Perché non ne ho parlato? Non lo so.
Forse in quel momento non ne colsi appieno le conseguenze. Forse perché tutti sapevano come era fatto quel docente, e nessuno nei fatti aveva fatto granché per sanzionare i suoi comportamenti, se non riderne. Lo si trattava come un personaggio buffo, innocuo, un po’ maniaco.
Forse non lo feci perché in quel momento avevo altri pensieri per la testa, altre situazioni da sciogliere legate alla mia vita da adolescente tutta testa, con dieci in quasi tutte le materie ma poca esperienza dei fatti della vita, conseguenza seccante della mia età anagrafica. In altre parole, ero intelligente, spaccavo i marroni sulle questioni di principio e di lana caprina ma ero sempre e comunque una ragazzina.
Diciamo che quell’episodio non aiutò a corroborare una bella immagine degli uomini, in particolare quelli adulti, che – forse in virtù della mia maturità intellettuale – tendevo comunque ad attrarre. Per fortuna, nel mio caso mai ci fu violenza, coercizione fisica, abuso, ma ho sempre ritenuto, e ritengo ancora oggi, che lo sconfinamento di campo e di ruolo sia altrettanto pregna di gravità.
Perché l’equazione mentale di quella “me” adolescente, allora, fu più o meno “è colpa mia. Sono io che seduco/attraggo/accetto persone che sconfinano i ruoli che rivestono, perché ne so cogliere l’umanità”. E sti cazzi, ora lo so che non è così, che le relazioni non sono così, che i rapporti tra i sessi non sono così, o che non lo sono necessariamente, o che almeno vanno scelti, scientemente, così – e non solo subiti. E non importa, che ci sia un tornaconto, non importa che non ci sia. Lo squilibrio delle parti fa saltare ogni altro “se” e ogni altro “ma”. Punto.
Ecco, questo c’era dietro quel breve racconto.
Perché non l’ho detto prima, perché non l’ho detto in quel momento?
Perché non ne ero in grado. Non ne ero capace, perché avrei dovuto smuovere temi immensi che la mia età acerba non era in grado di gestire, e che la mia superbia intellettuale non poteva tollerare. Così scelsi di ignorarlo. Forse sbagliai (per il caso in sé, sicuramente, per la mia tenuta mentale, allora, forse fu meglio così), ma tant’è.
E oggi, sono felice di parlarne, perché scrivere serve, leggere serve, ricucire serve. E importa poco, davvero poco, se uno sceglie di farlo presto o tardi, e del perché.