Ché qualcos’altro, ancora, brucia il cuore

Ho avuto molte ore per pensare, in questo mio lunghissimo viaggio di ritorno dall’Asia.

Ore spese per abituarmi all’idea che oggi avrei dovuto salutarti per sempre. Sono ancora incredula, stranita, come catapultata in una realtà aliena. Ho provato a ripercorrere la mia vita insieme a te, la nostra storia da quando io ti ho raggiunto al mondo. E, sorprendentemente, tra tutti i pensieri e le immagini confuse, una domanda si è fatta insistente: quanti sono i sorrisi che si possono contare nella vita di una persona? Quante le risate scambiate? E, ancora più sorprendentemente, mi sono accorta che questa era l’immagine di te che emergeva con più forza nel mio ricordo.
Ed è strano, se penso alle migliaia di litigate furibonde che abbiamo fatto, discutendo sui massimi e sui minimi sistemi, da Dio al sale in tavola, dal rock ai vestiti, dalla politica alle patatine che nascondevi dietro i mobili per mangiartele in santa pace, al riparo dalle nipoti.

Eppure è il tuo sorriso che ho scelto di portare con me.
Quello che arrivava prima di un moto arguto o dopo una barzelletta pungente, quello che accompagnava un gesto gentile o i saluti sulla porta, quello della telefonata al rientro dalle vacanze o dell’apertura dei regali (qualunque regalo: da quelli di Natale rigorosamente impacchettati e scartati la mattina del 25 alle 12,30, quelli del compleanno che volevi ugualmente anche se a due giorni dalla vigilia, quelli che riportavi, sistematicamente, indietro, dopo averli aperti).
Il sorriso del pranzo di capodanno con il concerto viennese in mondovisione e quello delle serate di Sanremo registrate dalla tv, quello di quando giocavamo a carte e tu baravi e ridevi perché io non me ne accorgevo mai, quello con cui guardavi i tuoi piccoli nipotini e quello con cui mi mostravi il tuo ultimo acquisto tecnologico.
Il sorriso che seguiva gli scherzi o i racconti della tua infanzia con mamma, a Lucento, quello con cui accarezzavi il “tenero” (per te) e feroce (per noi) Musetto, il sorriso con cui parlavi di nonna.
Il sorriso, ancora, delle risate piene, che arrivavano all’improvviso. Ce ne sono state tante, anche negli ultimi mesi, quando di motivi ce ne erano pochi. Ogni tanto riuscirvi ad essere ironico e sardonico, salvo poi stizzirti perché non ti capivamo…
L’ultima l’abbiamo fatta pensando agli orientali che si salutano con l’inchino. “Non prendere capocciate quando sarai laggiù”, mi dicevi, “ricordati che devi solo “accennarlo”…”.
E infine, ancora ieri, quando ti ho rivisto, mi è serbato di scorgerlo, per ironia beffarda della sorte, sul tuo volto rasserenato.

Eravamo così diversi, eppure in fondo così simili, come dicevi tu, facendomi arrabbiare tantissimo.
Ora penso che un po’ tu avessi ragione, e nella tua fragilità accolgo e riconosco la mia.

Tra tutti i momenti, per salutarti ne scelgo uno.
Era una mattina d’estate, nella casa vecchia di Coassolo. Tu eri al tavolo di legno scuro, con la tazza di caffè riscaldato e la Gazzetta aperta sulle news del Milan. Io ti guardavo con la coda dell’occhio per cogliere il momento in cui poter leggere la tua Stampa senza stropicciarla per prima. Una volta conquistata, la stendevo per terra, nel raggio di luce che filtrava netto da fuori, tra le ombre delle piante, e seduta sul divano mangiavo pane e formaggio che la nonna preparava per entrambi.

Spero, mi auguro che ci sia un luogo in cui un giorno potremo tornare a salutare di nuovo il giorno che nasce, insieme.
Ti voglio bene zione.

Survivor’s Stories

Ieri Raneb è andato in gita.
Ad ascoltare la sua storia egiziana c’erano 45 paia di occhi, curiosi e attenti.  I proprietari di alcuni di quegli sguardi, i più grandicelli, conoscevano il mistero della piuma, il fascino del viaggio dell’oltremondo, il potere immaginifico dei geroglifici.
Il resto è stato facile: lasciar fluire le parole, aggiustare in presa diretta il racconto, smussare i vocaboli più difficili, inserire una battuta, sottolineare i passi con i piedi, battere le mani, muovere le dita nell’aria insieme ai segni danzanti sulle pareti del tempio. Raccontare cosa sia una storia, tracciarne i contorni, immaginare i tasselli che la compongono per scoprire che non servono regole. Non a 10 anni, non d’estate su un prato all’ombra.
Nessun racconto come questo, tra quelli che ho scritto, si presta ad essere letto e riletto presso un pubblico così esigente e così attento come quello dei bambini. Il timore della chiusa troppo rapida, del senso nascosto dietro poche righe, mi assale sempre prima di ogni inizio. Ma il piacere dei suoni, la ruvidezza dei tessuti, la polvere che si alza, la frescura in gola dei sorsi d’acqua di Raneb, prendono il sopravvento e si prestano a farsi racconto del racconto: come si scrive, perché si scrive.
Esercizio utile all’autore oltre che all’ascoltatore, ancor più che del lettore: sentire in bocca la musica dei suoni, i verbi che si arrotano rotondi, gli articoli che incespicano, gli aggettivi lunghi come i treni delle vacanze che stonano, una volta che la voce li ha animati – e che pure tanto ti piacevano, mentre li leggevi con gli occhi, in silenzio – e ancora il piacere delle domande e la precisione puntuta delle risposte: i sandali, come sono i sandali? Di tela, di cuoio, di paglia? Il muretto è a secco? l’aria è tersa o umida, le stelle brillano o rifulgono, le pareti sono scivolose, ruvide, levigate, calde, fredde, incise e la voce, la voce è potente, il dattero dolce?
Fare un laboratorio di scrittura con dei bambini significa non solo ritornare piccoli, aprire i boccaporti del ricordo e far sgranchire i pensieri al sole del mattino… significa porsi e farsi porre domande a cui non avevi pensato: conosci i luoghi che hai descritto? Inventi sempre le tue storie? Quando capisci che una cosa va raccontata? Vorresti cambiare la tua passione? Hai mai scritto una canzone, vorresti farlo, posso farlo io? Deve essere tutto vero, e cosa è “vero”?
Le due esperienze con i bambini di Atelier Héritage nei loro #pomeriggiletterari in Barriera di Milano e dell’estate ragazzi English Survivor, immerse ciascuna nel proprio contesto urbano, hanno ri-aperto in me cassetti della memoria semichiusi, riportando alla luce le storie scritte all’ombra di altri alberi, in un tempo che si conta sulle dita di due mani in luoghi che non esistono più. Le ricreazioni passate sotto il nocciòlo a intrecciare trame, la paziente azione di ricopiatura (la “bella”, applicata anche al testo della fantasia), la penna a sfera, il regalo.
Insegnare a scrivere storie non è didattica, non è nemmeno scrittura creativa. È un processo condiviso di scoperta, è libertà di immaginazione, è il piacere di mischiare le carte e di creare nuove realtà, è colorare i capelli di un personaggio e inventarsi il suo destino, contro tutte le logiche degli adulti. E’ scrivere con un pennarello con la punta grossa e correggere gli errori con le righe, è rimbalzare i pensieri insieme al pallone nel prato, è esercizio democratico di compromesso e costruzione paziente di un immaginario comune.
Inventare insieme una storia è un atto di fiducia e di scambio, è ridere di una trama inaspettata e di una licenza inattesa. Perché chi se ne importa se nel Cinquecento non c’erano le navicelle spaziali: c’era la fantasia di chi le immaginava; che importa se il “pianeta verde” non è stato ancora scoperto: noi ci arriveremo con un volo di linea partito il 5 ottobre, perché in ottobre succedono le storie di mistero. Che importa se Lady Scarlet ucciderà il comandante con un cocktail su una nave da crociera ma poi la nave affonderà perché il motore brucia… la fantasia non ha limiti, la creazione non ha paletti. Sono solo la logica e le pagine ad avere contorni. Noi abbiamo solo bisogno di altri fogli per scrivere e di un prato per raccontare le nostre avventure. Ricordando agli adulti, come me, che essere liberi si può.

Nuove autrici visibili

Continuano le iniziative del rutilante mondo degli autori di Antonio Tombolini Editore: oggi sul blog di Manuela Bonfanti è uscita una recensione molto interessante, dedicata alle autrici della casa editrice.

Autrici che intervistano autrici che leggono autori di ATE. Ce n’è abbastanza per attraversare la Transiberiana senza temere di finire i libri a disposizione.

Leggetevi l’articolo e soprattutto leggetevi le storie, i romanzi, le raccolte di racconti… un’estate al femminile non significa necessariamente un’estate in rosa.

L’articolo lo trovate qui.

 

The Travelogue – la nuova rivista online è pronta!

Gli autori di Antonio Tombolini Editore, credono che la letteratura, la scrittura e in generale i libri debbano circolare, come le idee, come i progetti.

Per questo è nato “The Travelogue” una rivista letteraria su Medium, in cui confuiranno i racconti di viaggio di scrittori.

Non un semplice blog di viaggiatori, ma qualcosa di più ambizioso: The Travelogue è una rivista on line curata da scrittori che viaggiano, alla ricerca di spunti, suggestioni, emozioni da trasformare in storie. Il viaggio per noi è una fonte di ispirazione, uno strumento per allargare i confini delle nostre vite, una scusa buona per inventare una nuova storia. La scrittura per noi è una necessità.

Per adesso ci trovate i miei articoli, quelli di Ilaria Vitali e di Massimo Lazzari. Presto sarà collegato anche alla collana Roads di Antonio Tombolini Editore, curata da Giulia De Gasperi.

Un motivo in più per seguire luoghi letti con gli occhi di chi non può fare a meno di descrivere il mondo con le parole.

Seguiteci, seguitelo, raccogliete scrittori, diffondetelo…

 

Io sto con Boris… anche in carcere

Metti una calda giornata d’agosto, metti un albanese, due napoletani, un siciliano, due calabresi e un marocchino, metti un laboratorio in una sezione di alta sicurezza in carcere, lancia una sfida letteraria… e goditi le parole sincere di un gruppo di persone sui generis che la vita ti ha messo lungo il cammino.
Boris ha trovato nuovi compagni di strada, lettori attenti e scrupolosi, con tanto di vocabolario in mano per meglio comprendere l’italiano, spesso imparato in carcere tramite le lettere scritte a mano.
Ci sono soddisfazioni grandi che partono da cose piccole, come quella di ricevere attestati di stima quando, dove e come non te lo aspetti.

Ripartire dagli ultimi significa sentirsi ultimi, e sentirsi ultimi aiuta a essere persone migliori, e aiutare gli altri ad esserlo.

 

Selamat Datang

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Arbain Bin Kadirun è l’Imam del villaggio di Patu Puteh, nella regione del Kinabatangan, nello stato di Sabah. Vive nel cuore del Borneo malese, a 150 km dalla città più vicina, che si chiama Sandakan ed è forse una delle più brutte al mondo. Per arrivare a casa sua ci vogliono almeno 19 ore, 3 aerei e un paio d’ore di pullman. Almeno, questo è stato il tempo che ho impiegato, tappe intermedie comprese, per essere ospite a casa sua.

Arbain vive con sua moglie, due figlie femmine e un figlio maschio. Prima c’era anche la nonna, ma  è scomparsa da poco. Lo ricostruisco io, mettendo insieme i pezzi del puzzle planisferico che ho sotto gli occhi mentre sbircio dentro la sua casa. C’è un ritratto di famiglia, con la nonna presente, la stessa nonna che la figlia più piccola mi mostra in un filmato registrato sul cellulare. Devo dire una nonna non in salute, accolta in un letto d’ospedale da tubi e tubicini. Ma la bimba sembra contenta, nel ricordala. Lo intuisco, perché io non parlo malese, e nemmeno uno dei dialetti dei discendenti degli Iban ancora presenti in queste terre, né tantomeno cinese o tamil. Per cui ci aggiustiamo a gesti e a sorrisi, che ci si capisce benissimo lo stesso.

Arbain e sua moglie K. hanno aderito al programma della comunità Mescot, che ospita persone desiderose di percorrere 11mila chilometri per andare a piantare alberi nelle foreste liberate dalle piantagioni latifondiste delle multinazionali, come me e le mie amiche. Una cosa, quella di piantare gli alberi, che facciamo solo noi stranieri a quanto ci spiegano in seguito, ma che fa tanto bene alle persone del posto che così prendono esempio. Così ci dicono, ma non Arbain, che è una persona gentile.

Arbain non c’è mai, o quasi mai, in casa. Essendo l’Imam, guida la comunità del villaggio e si reca diverse volte durante la giornata presso la moschea. Il Villaggio Batu Puteh è musulmano, ma questa è solo una delle varie possibilità religiose dell’isola. Nei giorni precedenti, in un’altra parte sperduta di questa foresta immensa che è il Borneo, nello Stato di Sarawak, ad accoglierci era stato invece un villaggio cristiano di discendenti degli Iban.
I tagliatori di teste, per intenderci.
Discendenti cristiani di tagliatori di teste, per capirci. Che ci avevano accolto con una testa di maiale arrostito e grappa di riso in bottiglie di plastica.
Per intenderci.
Il villaggio di Arbain invece è un’oasi di serenità. Arbain e sua moglie, come tutti i vicini, vivono in baracche di legno leggermente sollevate da terra, Homestay essenziali, con tetti di lamiera e grossi cilindri fuori da casa con un rubinetto corrente a fungere da doccia e ristoro.
La cucina della casa di Arbain è a vista, nel senso che è all’aperto, e si vede la foresta che sta tutt’intorno al villaggio. Sua moglie K. di giorno si inerpica dentro il fogliame e se ne torna con ceste piene di “erbe della foresta”, specie di costine ricurve con ghirigori arabeggianti che sono squisite e verdissime.
K. ha preso sul serio il compito dell’accoglienza, e ci ha preparato un pranzo di benvenuto, a base di riso, frutta, spezzatino di carne, ciambelle. Non mangiamo tutti insieme però; solo io, la mia compagna di ventura V., la signora K. e una delle bambine, quella che è riuscita con fatica a sottrarre al gioco esattamente come qualunque mamma italiana nei pomeriggi d’estate.

Selamat Datang, benvenute, ci dice K.
Arbain arriva questa sera, dice ancora, in un inglese ancora più acerbo del mio, che me la rende subito simpatica. Dopo pranzo abbiamo tempo per riposarci nella camera che ci hanno riservato. Dato che non c’è posto a sufficienza, hanno fatto che darci il loro letto nuziale. A nulla valgono le nostre proteste: dormiranno tutti insieme in una stanza, per terra o sui cuscini, che l’ospite è sacro.
La stanza da letto è una stanza come tutte le altre nella casa, solo con un letto. Come le altre nel senso che non ci sono altri oggetti, soprammobili, tappeti o sedie. Solo un buco nel pavimento da cui entrano formiche copiose, una finestra sul retro del cortile dove una capra si lagna alternandosi al gallo del cortile vicino e una lampadina che però si può accendere solo in alcuni orari, perché di notte il generatore si spegne per risparmiare energia. E con esso anche i ventilatori, l’acqua corrente del bagno, la luce della casa.

Arbain ha un grande Corano posto in bella mostra nella stanza principale. È bellissimo, tutto decorato e miniato. A fianco del Corano c’è il mobiletto della tv, accesa notte e giorno. Sua moglie guarda una specie di telenovela sdraiata sul legno del pavimento, che mobili non ce ne sono, appunto.
Dopo la siesta K. ci insegna a cucinare un paio di piatti locali. Usiamo olio di palma, verdure, riso e condimenti a base di peperoncino. Mi appunto la ricetta della torta di banane, e mi impegno a inventarmi una ricetta da regalarle perché possa riprodurla qui per la sua famiglia.
Non me ne vengono. Non abbiamo gli stessi ingredienti, non esiste forno, è un pasticcio. Ci penserò a casa, con calma, e prendo tempo cercando di non far scuocere le verdure scottate. Usiamo sempre la stessa pentola, sciacquata velocemente con un po’ d’acqua gettata poi dalla finestra sulla foresta, in spregio alle regole base della vita green. Mi vengono in mente le parole sugli alberi da piantare e forse capisco meglio cosa volessero dirci, stamattina.

A un certo punto K. ci dice che siamo in ritardo e che dobbiamo andare. Lasciamo il pasto in caldo, e ci avviamo con lei verso l’uscita della casa. Ci rimettiamo le scarpe, che avevamo lasciato fuori sui gradini di legno, e la seguiamo verso il centro del villaggio.
Da lontano, vediamo nugoli di persone convergere verso lo stesso punto, tutti allegri.
Io temo che sia il momento della preghiera corale, invece è il momento della socializzazione.
Sport, per la precisione.
Volley su selciato, per la precisione.
Con mio grande stupore, tutto il villaggio si ferma.
La rete da pallavolo si staglia tutta ondulante sotto il Kinabatangan Bridge. Le squadre vanno formandosi tra i convenuti. Donne, uomini, bambini, ragazzi, ragazze, velate, senza velo, tutti scalzi, tutti felici. Ci sono molti ragazzi omosessuali, lo noto perché è impossibile non notarlo. Ma non è no sguardo pruriginoso, ma di stupore felice. Che siano dichiarati o meno non mi è dato saperlo ma nessuno, in questo sgarrupato villaggio musulmano baraccato sotto il ponte, sembra curarsi dell’orientamento sessuale di chicchessia, e tutti giocano con tutti.
Ci chiedono se vogliamo far parte di una squadra. Intanto sono sopraggiunte anche le altre due compagne di viaggio, dislocate presso un’altra famiglia. Ci sediamo vicine sull’asfalto caldo, tra bimbi in bicicletta, cani a zonzo e caprette.
Io farfuglio qualcosa, la schiena, la stanchezza… in realtà vorrei giocare, ma la tentazione di assistere a questa scena insolita e pacifica come osservatrice ai bordi della vita degli altri alla fine vince su tutto.
Osservo le persone, i loro sguardi, i loro gesti. Mi sembra che in questo villaggio ci sia una regola implicita di rispetto e spazio, di tolleranza e inclusione. Di attenzione per i singoli, per i diversi.
A partire da noi.

Quando rientriamo in casa inizia a piovere. Una pioggia ostinata e battente, una pioggia di acqua che si insinua tra case e strade, nelle scarpe lasciate fuori dagli usci, sulle galline che protestano, sulle lamiere, sul legno che respira.

Ceniamo con i piccolini, che ci guardano con curiosità e occhi sgranati. Ci offriamo per risistemare la cucina dopo il pasto, ma in realtà c’è poco da riassestare: le stoviglie sono contate, i bicchieri pure, il contenuto delle pentole finisce dove già so, e tutto finisce lì nell’acquiescenza generale.
Così quando la piccola ci prende per mano per portarci sulla terrazza, finiamo per seguirla senza sensi di colpa.
Fuori inizia a scrosciare pioggia con una certa violenza, la luce del giorno è calata del tutto. Illuminati da una lampadina, i nostri corpi disegnano ombre sul pavimento di legno e linoleum.
Giochiamo a Congkak, o Sungka, o Mancala, come si chiama rispettivamente in Malesia, Filippine o in tutta l’Africa.
Non abbiamo pedine, né conchiglie da usare, o semi, per cui la più piccola si mette scarpe e mantellina ed esce sotto il diluvio tropicale per recuperare dei sassolini abbastanza grandi e abbastanza numerosi per poter giocare. Inutile dire che in breve siamo stracciate. Non riusciamo a piazzare nemmeno una partita, la piccola ci sconfigge da esperta stratega. La base in legno grezzo su cui posiamo le pietre viene spazzata dalle sue manine veloci, guidate da intuito e visione d’insieme.
Capiamo che i principi generali sono la semina e la raccolta, conditi da un certo ingegno previsionale rispetto a dove capiterà l’ultimo sassolino del raccolto che si muove sul tavolo da gioco durante la semina. Mentre la guardiamo, ammirate, decidiamo all’unisono che al nostro rientro le invieremo una scacchiera con tanto di istruzioni tradotte. In lei c’è un futuro da srotolare e far risplendere. Che sia da militare o da giocatrice poco importa: la sua mente richiede ammirazione e spazio.
Lo stupore che mi toglie il fiato arriva però subito dopo. La più grande delle due bambine prende da parte 5 sassolini levigati e grossi quanto i noccioli delle nespole, li soppesa nel palmo della mano lentamente, con fare sapiente, e poi si volta verso di me, sorridendomi.
Non posso credere ai miei occhi: mi sta sfidando a giocare “alle 5 pietre”!
Il gioco della strada, il gioco dell’infanzia, il gioco dei bambini di ogni parte del mondo, il gioco che unisce generazioni e ricordi, ingegno e povertà. Il gioco fatto di niente, senza guantoni o divise, il gioco democratico insegnatomi da mio padre mille e mille estati fa, in una stessa sera di pioggia estiva, sotto la luce di un’altra lampadina precaria nell’infanzia montana di cui serbo ricordi fatti di odori umidi e bruni come la pioggia d’estate, pensieri caldi e bianchi come l’afa agostana, gesti familiari e verdi come le nocciole spezzate con la pietra sul tavolo di quercia.
Penso a mio padre e sorrido. E mentre sorrido arraffo le pietre e le lancio sul linoleum, con la sfida negli occhi. Le bimbe si contorcono gioiose per le risate.

Quando Arbaein torna, è ora di andare a letto. Le figlie si accomiatano dandoci un bacio e regalandoci un sorriso che si incunea tra la pelle e il cuore.
Arbain si siede con noi in terrazza, si accende una sigaretta.
Parliamo un po’? ci chiede.
Poi inizia a raccontare. In un ottimo inglese ci narra la sua vita, ci descrive la sua famiglia, le tradizioni del suo popolo, il loro cibo, la natura che li circonda. Per fortuna V., che abita con me, conosce benissimo la lingua dell’impero, e io mi accoccolo dentro il suono delle loro parole, cogliendo il senso generale della discussione su petrolio e inquinamento, su geopolitica e natura.
A un tratto ci domanda del nostro paese, della nostra città, delle nostre vite.
Sorride curioso e ride a crepapelle quando scopre che da noi no, non abbiamo davvero scimmie sugli alberi, e che sì le banane le importiamo.  Ci chiede quale sia l’animale tipico da noi, e con non poca esitazione risolviamo che orso, gatto e lupo possano andare bene, che già a descriverli è una fatica dialettica e immaginifica.
Arbain dice che i suoi figli vanno a scuola da soli, ogni mattina. Camminano per due chilometri, poi un pulmino viene a recuperarli. Hanno tutti una divisa pulita e ordinata. Blu e bianca. Le bambine, che io ho visto scorrazzare in casa in pigiama e per il villaggio con pantaloncini e maglietta, vanno a scuola con il velo. Sua moglie il velo non lo porta, però nelle foto di circostanza sì. Sono un po’ confusa, ma poi penso che ho appena descritto il mio paese come infestato da belve feroci ad ogni angolo di strada, per cui taccio sulle stranezze altrui e sulla lingua.
Solo una cosa mi infastidisce.
Quando mi domanda se la nostra città è proprio quella della Juventus (lo chiede molto speranzoso, sottolineando la parola Juventus con gli occhi).
Non me ne capacito. E non è perché io sono di Torino e tifo Toro, no no. Forse è perché qui non esiste la tirannia del calcio e i bambini tirano a canestro o sopra la rete con la stessa gioia nostrana davanti alla palla che rotola, per cui mi suona strano parlare di calcio, nella notte che cade liquida sotto il ponte di ferro arruginito. Ok, va bene, è perché sono del Toro.
Comunque Arbain mi sta simpatico lo stesso.

A un tratto smette di piovere.
Arbain si accomiata: questa notte alle 5 ci sarà la preghiera, e lui dovrà presenziare in moschea. Ci salutiamo con un cenno della mano, dandoci appuntamento per il commiato vero, che sarà nel pomeriggio del giorno che verrà.
Piano, dentro di me, sento farsi strada nel cuore la nostalgia degli incontri, la malinconia delle cose belle appena trascorse che mi accompagnerà da domani in poi.
Da dentro casa avvertiamo il suono soffuso della televisione, e un leggero russare. Suoni domestici, familiari, noti.
Ci alziamo lentamente. Poco lontano, il lungo fiume Kinabatangan dorme placido e giallo.
Trimacase, diciamo in coro, abbassando leggermente il capo.
Grazie.

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I ricchi che mangiano il gelato

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“Mia madre mi portava qui, quando ero piccolo.
Avevo undici anni, venivamo a fare le vacanze al mare.
Mia madre odiava l’acqua, ma amava il mare, il sole, la spiaggia. Affittavamo una casa al fondo della passeggiata, con un grande terrazzino da cui si vedeva la distesa blu, ma solo di sguincio. Ad Alassio, a quei tempi, un po’ come adesso per la verità, non c’erano praticamente accessi per la spiaggia libera. Così, dato che per noi il mare era davvero “mare”, senza altre possibilità o distrazioni, andavamo a piedi fino alla sabbia democratica di Laigueglia. Tre kilometri a piedi all’andata e tre al ritorno, due volte al giorno.
Per me, un mese intero in vacanza era quasi una condizione onirica. Avevo bisogno di pochissime cose. Tre per la verità: una manciata di amici, un pallone per il pomeriggio, una scusa per ritrovarci la sera. Sì perché io volevo tornare da loro, a fine giornata, per scherzare sul giorno che se ne andava. Solo che loro stavano a Laigueglia… e io ad Alassio. Mia madre a dire il vero non mi pose mai limiti, nonostante io fossi poco più che un bambino. Avevo solo un grande divieto: mai oltre le 22.30. In pratica, andavo a trovarli a piedi, li salutavo e tornavo indietro a piedi. In tutto facevo quasi 18 km al giorno. Altro che cammino di Santiago. Il cammino di Giovanni lo dovevano chiamare…
Mia madre mi portava qui quando ero piccolo, e di sera mi portava nella piazzetta.
Diceva che sotto l’insegna colorata di giallo e di verde, come la bandiera del Brasile, sotto l’omino blu vestito di neon, avrei visto come i ricchi mangiavano il gelato”.

“E l’hai visto davvero, papà?”

“Che cosa?”

“Quello che diceva la nonna. Come i ricchi mangiavano il gelato”.

“…  Macché. Mi portava nella piazzetta e io mi sforzavo di guardare, di osservare, di capire. Scrutavo tutti i tavolini, le signore che ridevano, gli uomini che parlavano. Guardavo i bambini, guardavo i tavolini e guardavo pure l’omino blu vestito di neon.
Guardavo intensamente.
Ma non vedevo nulla intorno a me se non gelato.”

Mentre mio padre racconta, costeggiamo il molo. Da qui, son certa, veniva a tuffarsi di giorno con gli altri ragazzi. Gare di tuffo proprio, a candela e a cucchiaio. Tecniche provate in lunghe sessioni giornaliere, con punteggi e turni rigorosi. Osserviamo l’acqua dall’alto del pontile. È una sera di quasi pioggia, ma le luci della costa, da lontano, illuminano contorni che potrebbero essere ieri. Non c’è la luna. Piccoli lampioni lungo il bordo della piattaforma illuminano il verde smeraldo sotto di noi. Anche stasera ci sono ragazzi che si tuffano, dentro il buio dell’estate. Mio padre si affaccia sul pontile, scruta la superficie, prende misure mentali, cerca i pescatori. “Eccoli là, ancora là. Una volta li feci infuriare. Venivo a nuoto con le pinne, tutto orgoglioso. E mi impigliai come un pesce tonto nel loro intreccio di fili. Una trama disperata di esche e di lenze, avvolte intorno ai miei piedi. Io li vedevo lassù, sul pontile che agitavano le mani. Pensavo mi salutassero, e rispondevo pure, felice. Le urla, quando mi avvicinai un po’ di più, le urla che mi tirarono…”.

Lasciamo il molo sotto un leggero manto umido di condensa. Una breve folata di vento spezza via per un attimo l’afa quasi agostana. Un manifesto annuncia il prossimo concerto di Toni Dallara, un piano bar suona fuori dalle vetrate un canto melodico e triste. Sembra di vedere un carosello a colori. Un carosello che non risparmia gli ottantenni,  imprigionandoli davanti e dietro i microfoni.

La piazzetta ci accoglie affollata. La scritta verde “Balzola – dal 1902” sembra quasi sfrigolare nella calura. I tavolini del caffè all’aperto sono un angolo di estate che invita a chiudere gli occhi, per riaprirli dentro un sogno agghindato come gli anni Sessanta.

“Mi ricordo che c’era un cantante, qui, vicino alla fontana. Era giapponese. E suonava melodie italiane. Noi venivamo qui, la sera, a vedere i ricchi mangiare il gelato e a sentire il giapponese cantare in italiano”.

“E adesso, papà? L’hai capita, finalmente, ‘sta cosa del gelato?”

“Figlia mia, vuoi la verità? Io continuo a vedere solo gelato. Dappertutto.”

“E infatti, mi sembrava. Guarda che ti cola la stracciatella. La commessa era contenta prima. Finalmente hai preso un gusto umano. Limone e cioccolato non si potevano sentire accostati su uno stesso cono, papà”.

Torniamo sui nostri passi, verso mamma che ci aspetta sulla panchina di fronte al mare. Una fiumana di gente ostinata ci investe. Sono un abbraccio sudato e non richiesto, gioioso e annoiato nello stesso tempo. I forzati della vacanza, i prigionieri della felicità a tempo. Tutti gli sguardi guardano verso qualcosa. Tutti cercano qualcosa, o forse sperano solo, disperatamente, di trovarla.

Un cappellino colorato mi attraversa lo sguardo. Sotto c’è un naso, e attaccato a lui un bambino che guarda all’insù, verso l’omino blu vestito di neon che illumina il cielo.

“Dove andiamo, nonna?”

“Se stai bravo ti porto a vedere una cosa speciale”.

“Che cosa, nonna?”

“Andiamo a vedere come i ricchi mangiano il gelato”.

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Raneb che voleva capire. Favola di un Egitto lontano

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Quando Raneb appoggiò la mano alla porta, la sua pelle incontrò una superficie ruvida e fredda.
Era una notte tiepida, in lontananza si sentiva solo lo sciabordìo delle acque del Nilo lungo le rive, e il gracchiare delle rane.
Sgattaiolare fuori di casa era stato un gioco da ragazzi. Saltato il muro che cingeva la sua abitazione, Raneb si era inoltrato a grandi balzi lungo il sentiero polveroso che si snodava in discesa, verso il tempio di Osiride. Lungo la via, le torce accese illuminavano la sua ombra di una luce calda e arancione.
Raneb non aveva paura. Non molta, almeno.  Le enormi statue di pietra ai bordi della strada gli tenevano compagnia, guidandolo nella notte.
A ogni balzo, i sandali di Raneb sollevavano un po’ di terra, che si raccoglieva in nuvole opache. Il rumore dei passi era interrotto solo dai tonfi sordi del suo cuore. Non aveva paura, ma ogni tanto, per sicurezza, si fermava di scatto e si guardava indietro, come per cogliere di sorpresa un inseguitore nascosto nell’ombra.

Quando il villaggio di Abydos fu del tutto alle sue spalle, Raneb si fermò per riprendere fiato vicino a un comulo di massi, nei pressi di una fonte. Bagnò la mano sotto il getto flebile dell’acqua e si deterse il collo e il viso, per asciugare il sudore. Bevve un piccolo sorso, lasciando scendere la frescura lungo la gola e assaporando il gusto dell’acqua.
L’ingresso del tempio era poco oltre, dietro le dune rocciose che riparavano il luogo sacro dalla vista dei passanti. I sacerdoti del villaggio lo avevano fatto erigere lì, tra la fonte di vita, le acque del Nilo, e la volta celeste, che sovrastava nelle notti di luna nuova, come quella, tutta la pianura. Alzando gli occhi, Raneb poteva vedere un tappeto di stelle luccicanti come il brillìo delle torce sull’acqua, nelle notti di pesca. Il firmamento sembrava un concerto di luce, e questo concerto, stanotte, era tutto per lui.

L’ingresso del tempio era custodito da due sacerdoti. Raneb, che da giorni studiava i loro movimenti, aspettò il momento giusto e poi scattò in avanti, percorrendo di gran corsa la spianata del tempio.
Una volta all’interno si trovò nel buio più totale.
I suoi occhi erano quasi ciechi. Ci volle qualche minuto prima che le pupille si adattessero alla luce fioca, quasi impercettibile, che proveniva da una fessura della volta. Raneb sentiva il suo respiro farsi solido. Le pareti, di pietra grezza, erano bagnate da rivoli di umidità. Anche i piedi di Raneb erano bagnati: l’acqua, nella camera del sarcofago, arrivava quasi a metà del polpaccio.

A tastoni, Raneb girò intorno alle statue che ricoprivano le pareti interne.
Quando gli sembrò di aver trovato quella che cercava, mise la mano destra nella sacca che aveva portato con sé, e ne tirò fuori un po’ di pane e datteri.
Poi avvicinò la mano alla bocca della statua e con cautela infilò il cibo nella fessura.

Prima di riuscire a ripetere il gesto,  fu colpito da una luce fortissima. Tutto tremava, la volta di pietra, il terreno allagato dall’acqua, le statue imponenti lungo le pareti.
La sopresa fu tanto grande che Raneb vacillò e ricadde all’indietro, sbattendo forte il sedere sulla pietra. L’acqua che ricopriva il fondo della stanza ora lo bagnava quasi completamente.

“Per Osiride!”, disse ad alta voce, ma poi si zittì, timoroso di farsi scoprire dai sacerdoti.
Mentre cercava di rialzarsi si accorse di non essere più solo.

Di fronte a lui, la statua che poco prima aveva nutrito di pane e datteri si era staccata dal muro e lo guardava interrogativa.
Allora Raneb si fece coraggio, e parlò per primo: “Sono venuto qui perché voglio conoscere la storia del sole e del suo viaggio nel regno degli inferi. Voglio sapere cosa c’é nel mondo dell’aldilà”.
“Perché lo vuoi sapere?” gli domandò la statua.
“Voglio sapere di cosa ha bisogno Amal, che sta affrontando questo viaggio. Non voglio che si senta solo, e che gli manchi qualcosa da mangiare”.

Allora la statua cominciò a raccontare. Impercettibilmente, i segni che erano impressi sulle pareti incominciarono ad animarsi, come in una danza, vorticando in breve tutto intorno.
Così Raneb seppe del sole e del suo viaggio in barca lungo le ore della notte, e della lotta contro l’oscurità, seppe del Faraone e dei pericoli da affrontare per giungere all’oltremondo e imparò l’esistenza delle dodici porte che conducono alle regioni dell’Aldilà, conobbe il timoniere Horo e il dio Anubis e vide la piuma della verità, con cui ogni anima veniva pesata per capire se meritava la vita eterna.

Nella mente di Raneb le immagini componevano un unico grande quadro animato. Dalle pareti, i disegni avevano riempito l’aria e i loro profili si erano intrecciati ai suoi pensieri, trasformandosi in ricordi danzanti.

Rapito dal racconto, Raneb non si accorse di essere tornato nel buio più totale.
Per nulla spaventato, si guardò intorno. Tutto era tornato come prima, immobile.
“Ho sognato?” Si chiese.
Mentre si interrogava pensoso sul suo sogno a occhi aperti, sentì i passi dei sacerdoti avvicinarsi. Si mosse rapidamente e sgusciò fuori prima che le voci riempissero la stanza.
Fuori dal tempio, percorse a ritroso la strada verso casa. Prima di scavalcare il muro per la seconda volta, sentì un languore nella pancia. La corsa, l’adrenalina la scoperta, le statue danzanti avevano risvegliato una gran fame.
Mise una mano nella sacca per tirare fuori il pane e i datteri.  Le sue dita perlustrarono a lungo la stoffa ruvida. Non c’erano dubbi: la sacca era vuota.

Il cuore di Raneb allora sorrise, e le sue labbra regalarono alla Luna la sua gioia.

Cose di nessuna importanza, ovvero di vacanza

canucce

Racconti da un’altra estate.

***

Ho sempre odiato il billy, la scatoletta di tetrapack al sapore (flebile) d’arancia che andava di moda nella mia infanzia. L’odio si estendeva a tutti gli scatolotti affini, senza discriminazione di gusto o di marca, di contenuto o contenente, di sostanza o simbolo.
Succhi di frutta sottocosto o estathé, il mio era un disgusto chimico, egualitario e democratico.
Però ho amato moltissimo le cannucce.
Negli anni ho imparato a seguirne i percorsi evolutivi, gli adattamenti funzionali e morfologici.
La cannuccia non ha estetica, non vi fate distrarre dai colori. La cannuccia è sostanza. Dai rigidi tubolari cilindrici di formato mignon a quelli a due colori con il taglio obliquo sul lato che perforerà la pellicola dello scatolotto, dalla curva rigida per favorire la suzione al morbido soffietto.
La cannuccia è un miracolo di ingegno. Confesso che ancora oggi, d’estate, mi scopro ad acquistare almeno un succhino, ad aprirne la plastica della cannuccia e a scrutarne lo stato di avanzamento.
Non ho mai pensato che l’innovazione tecnologica passasse da qui.
Ma da sempre mi piace pensare al laboratorio di questa o quella azienda, e a quel qualcuno concentrato a studiare l’adattamento delle cannucce al palato. Signori vestiti di bianco circondati da bicchieri e cannucce, tutto il giorno. Per migliorare un istante delle nostre giornate.
Così immaginerete la mia gioia quando ieri ho aperto la confezione merenda del latte Arborea e ho trovato un piccolo miracolo: una cannuccia completamente nuova, sigillata dal lato della suzione ma con quattro fori ellittici che aderiscono perfettamente all’arcata del palato e alla lingua, rilasciando quantità variabili di liquido.
Come un ebete, sorridevo alla cannuccia.
Che poi dico, mi piacesse almeno, il latte. Ma chisseneimporta.
Da ieri ho un nuovo momento di trascurabile felicità.

Sentieri a Sud

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Ho un nuovo progetto. La sua gestazione è stata lunga, e si è nutrita di chiacchiere e sogni, incontri e letture, sguardi e profumi, mare, terra, ulivi, viaggio.

Il mese scorso, a giugno, abbiamo messo la prima pietra. La settimana scorsa, per la prima volta ne ho parlato a gente sconosciuta, uscendo allo scoperto.  L’occasione ce l’ha data  “Sentieri a Sud”.

Sentieri a Sud è il nome di una piccola rassegna di attraversamenti culturali tra antiche tradizioni e nuovi strumenti di narrazione e racconto. La organizza Kurumuny, la casa editrice salentina fondata dall’etnomusicologo Luigi Chiriatti, conficcata nel cuore della Grecìa, tra Martano, Calimera e Martignano. Il suo nome, Kurumuny, nasce proprio dal territorio. La sua etimologia ci porta infatti al nome che in griko si dà al germoglio dell’ulivo, un giovane ramo, come si legge nella presentazione dell’editore, “che affonda le radici nel territorio, sospesa fra sedimenti di antichità e orizzonti futuri”. Kurumuny è un pezzo di campagna, qualche ettaro di campagna fuori Martano, tra muretti a secco, vecchi frantoi, ulivi resistenti e terra rossa.

A Kurumuny ci arriviamo alla cieca, perché le indicazioni dicono di seguire fino alle ultime vie tracciate dal segnale, e poi chissà. Nel buio della campagna, qualche luce soffusa ci indica il passo. Sopra di noi, un strada piena di stelle, accompagnate dai grilli della notte, fa il resto.
Ci andiamo perché l’8 luglio si tiene il primo incontro previsto dalla rassegna. E Giovanni, che fa il direttore editoriale, a giugno, quando siamo andati a trovarlo nella sede di Martignano, ci ha detto che sarebbe stato bello vederci lì.
Con Giovanni abbiamo parlato del mio progetto nuovo, un libro sull’emancipazione delle donne del Salento, un libro bello che parli di storie che partono dal quotidiano, fatto di incontri e racconti, storie di ritorni e partenze, di progetti e speranze, di investimenti, di sfide e lotte. Un libro che è un viaggio lungo un alfabeto di stazioni che si chiamano come i comuni del territorio, un viaggio in treno lungo la ferrovia del Sud Est, lungo i binari unici che oggi risuonano di altri sentimenti forti e tremendi. La serata dell’8 è un inizio, un modo per immergersi in un territorio non scontato, un mondo conosciuto e amato in tanti ritorni da raccontare con occhi militanti.

Un progetto di rinascita da far partire in una terra che è naturalmente frontiera, approdo, interazione.

Sarà stato un caso, ma la presentazione del libro che dà ragione della serata, la “Favola agrodolce di riso fuori sede”, di Silvia Rizzello, diventa nei minuti che scorrono giusti l’occasione per un’altra narrazione: quella che scopre la terra di Puglia come crocevia di esperienze, con un primo fulcro nella Bari degli anni novanta, durante l’epico sbarco di 20.000 albanesi. Quella che narra storie di integrazioni feconde, come quella di Nabir Bey,  palestinese, voce e autore dei Radiodervish e corrispondente per dieci anni in Italia per Al Jazira. Quella che testimonia, insieme a Mauro Zacheo, la scommessa di un assessorato bellissimo, le Politiche per l’Accoglienza, del Comune di Martano.

Di solito le presentazioni sono noiose. Questa non lo è. E il primo regalo arriva dal pubblico, dalla voce di Maria Teresa che di anni ne ha molti di più dei miei, e li ha passati ad animare culturalmente l’italia ai tempi delle sezioni di partito, ai tempi dei cittadini partecipanti, ai tempi in cui il nostro paese non dormiva un sonno della ragione. Vincendo la mia timidezza inopportuna, cerco Maria Teresa dopo le parole animate, durante la cena conviviale offerta dalla comunità. Grazie a un negramaro generoso nei bicchieri, insieme, sotto le foglie, alla luce delle lampadine delle feste di paese, iniziamo a parlare di donne e politica, di cultura e impegno, di rinascita. Insieme, sulle panche di legno, si rinnova il miracolo dello scambio tra sconosciuti accorsi come noi nella sera d’estate che profuma di caldo per raccontarsi le vite. Il mio compagno è rapito dalla serata, Maria Teresa intreccia le sue mani nodose e il suo carattere caparbio con gli occhi buoni dell’orso barbuto venuto dal nord a conoscere altri suoni e altre vite.

Maria Teresa mi dà il suo numero. Vieni a trovarmi, mi dice. Abito nelle campagne intorno a Lecce, staremo insieme, pranzeremo e parleremo. So che lo faremo presto e ci accomiatiamo tra gli abbracci, sotto gli occhi benevoli di Gianluca, il figlio di Maria Teresa, di sua moglie, dei nostri amici, che sorridono all’incontro felice.

Eccolo, l’inizio del viaggio. Arriva quando meno te lo aspetti. Inizia e basta.

Dentro una terra, dentro le persone.

Sentieri a Sud. Nomen omen.