Questo articolo è comparso per la prima volta qui, con il titolo “In corteo per i diritti degli altri, i diritti di tutti”. Era il primo maggio 2013, oggi è lo stesso giorno del 2018, e vale ancora. Parola per parola.
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Ho camminato dentro tanti primi maggio.
Quelli dell’adolescenza, vestita più o meno come ora, jeans e sciarpa al collo, a mostrare gli occhi dentro la piazza piena di gente. Dietro le bandiere della Gioc, quella formazione operaria e cristiana che ha accompagnato gli anni della mia formazione. Difendevo, difendevamo, i giovani lavoratori. Quelli usciti prematuramente dal circuito scolastico, i lavoratori senza diritti, quelli che entravano in una dimensione di adultità senza nemmeno averci fatto sopra un pensiero cosciente. Erano gli anni di servizio dentro i Cigd, Centri informazione giovani disoccupati, di lavoro sulla strada, assieme a quelli che persino le parrocchie scartavano, troppo inquieti anche per la pastorale.
In quei primi maggio, si camminava assieme, ai giovani lavoratori. Non mi toccava ancora, quella dimensione, non la capivo nemmeno bene. Io studiavo, percorrevo anni liceali con la sicurezza di chi sta scegliendo il futuro, e non – come erroneamente pensavo – di chi era scelto dalla vita.
Poi sono venuti gli anni universitari. I maggi combattenti, la fatica nel ritrovarsi fuori da una dimensione associativa e dentro un universo cangiante, in cui cercare un posto proprio, identitario, nuovo.
Non l’ho mai trovato, non ho mai avuto più una bandiera dietro cui sfilare.
Sono stati anni di portici, a veder passare gli altri, invidiosa per quelle note convinte di lotta che partivano da gole militanti, sicure di stare dalla parte della ragione, quale essa fosse.
Poi sono arrivati i primi maggio da cococo e cocopro. Quando sfilare in corteo era un diritto quasi usurpato. Lavoratori per niente, lavoratori senza. Primi maggio a inseguire un senso del lavoro che ti cambiava sulla pelle, e su cui poco potevi, tra le retoriche rosse e l’isolamento di chi non ha difese, voce, tavoli di contrattazione.
Il lavoro dipendente e la consapevolezza del ruolo sono andati di pari passo. In quei primi maggio si respirava aria nuova, eppure lontana mille miglia da tutte le anime che incontravo. Le anime di chi si sentiva fuori, lontano, ex.
Le anime di una piazza attraversata da nuove inquietudini. Non più sanpietrini ma un’unità che stentava a decollare, una frammentazione rossa, specchio di una incapacità a raccogliersi insieme per cambiare qualcosa. Quasi contasse di più quella bandiera tenuta sù da dieci mani, che il senso di un percorso di avvicinamento tra diversi, per far sentire una voce nuova, matura, consapevole, presente.
E poi i primi maggio in differita, con la comunità Kurumuny nei frantoi salentini, nelle miniere dismesse dell’inglesiente, nelle strade francesi, a sentire che effetto fa, tradire il corteo e cercare un altro senso.
Oggi, che lavoro di nuovo ai margini, nel limbo colpevole di chi è mantenuto dallo stato, di chi è vittima e prigioniero di un futuro ipotecato, ma anche di chi cerca un nuovo senso nell’esserci, oggi attraverso il mio ventiduesimo primo maggio in piazza, guardo di nuovo le facce che mi sfilano accanto, di fronte, a lato.
Non ho ancora trovato il mio posto, nel corteo. Lo percorro per tradizione, ormai, più volte, avanti e indietro, sul selciato e sotto i portici, saluto amici, stringo mani, passeggio tra la città che guarda come se a sfilare fossero carri, e non diritti lesi.
Non lo trovo, il mio posto, perché forse non ce n’è mai stato uno, e ce ne sono sempre stati molti, invece.
Forse perché il senso di questo esserci, qui, in strada, dovrebbe essere quello di avere una bandiera unica sotto cui raccoglierci, tutti insieme: gli immigrati che rivendicano il diritto abitativo, le comunità straniere che dimostrano il proprio esserci – qui ed ora – a una città che fatica ad aprirsi al multiculturalismo delle potenzialità, e non solo dell’assistenzialismo.
Una bandiera unica, per chi il lavoro l’ha perso, per chi ancora non ce l’ha, per chi rischia in fabbrica, per chi rimpiange un passato di sfruttamento che per fortuna non tornerà, per chi ha fondato la propria identità su un mondo del lavoro che vive oggi di valori diversi. Una bandiera per far tornare i partiti vicini alle persone, una bandiera per le associazioni, una bandiera per i cittadini, i cani, i palloncini, Bella Ciao.
Il primo maggio è la festa dei diritti negati, violati, infranti.
È la festa della rivendicazione, dell’attenzione verso il diverso, della testimonianza.
È la festa degli amici che ritrovi, del pranzo dei lavoratori, di una comunità urbana che si scopre un po’ più umana.
È la festa della speranza e dell’impegno, della lotta e della storia, del passato e di un futuro che non potrà essere diverso se non si parte dal modo in cui lo si costruisce, anche qui, nella via stretta che porta in piazza.
Lungo questo viaggio lungo 22 primi maggio, mi sono chiesta più volte quale fosse il mio senso.
E per una volta la risposta ce l’ho.
Il mio primo maggio è la difesa dei diritti degli altri, dei diritti di tutti. Perché è il solo modo che conosco per fare in modo che quei diritti un giorno riguardino anche me.
Per questo continuo a camminarci in mezzo, a questo corteo.
Perché solo difendendo un bene collettivo, si può avere la certezza di difendere anche se stessi.
Mai il contrario.