Ho sempre odiato il billy, la scatoletta di tetrapack al sapore (flebile) d’arancia che andava di moda nella mia infanzia. L’odio si estendeva a tutti gli scatolotti affini, senza discriminazione di gusto o di marca, di contenuto o contenente, di sostanza o simbolo.
Succhi di frutta sottocosto o estathé, il mio era un disgusto chimico, egualitario e democratico.
Però ho amato moltissimo le cannucce.
Negli anni ho imparato a seguirne i percorsi evolutivi, gli adattamenti funzionali e morfologici.
La cannuccia non ha estetica, non vi fate distrarre dai colori. La cannuccia è sostanza. Dai rigidi tubolari cilindrici di formato mignon a quelli a due colori con il taglio obliquo sul lato che perforerà la pellicola dello scatolotto, dalla curva rigida per favorire la suzione al morbido soffietto.
La cannuccia è un miracolo di ingegno. Confesso che ancora oggi, d’estate, mi scopro ad acquistare almeno un succhino, ad aprirne la plastica della cannuccia e a scrutarne lo stato di avanzamento.
Non ho mai pensato che l’innovazione tecnologica passasse da qui.
Ma da sempre mi piace pensare al laboratorio di questa o quella azienda, e a quel qualcuno concentrato a studiare l’adattamento delle cannucce al palato. Signori vestiti di bianco circondati da bicchieri e cannucce, tutto il giorno. Per migliorare un istante delle nostre giornate.
Così immaginerete la mia gioia quando ieri ho aperto la confezione merenda del latte Arborea e ho trovato un piccolo miracolo: una cannuccia completamente nuova, sigillata dal lato della suzione ma con quattro fori ellittici che aderiscono perfettamente all’arcata plantare e alla lingua, rilasciando quantità variabili di liquido.
Come un ebete, sorridevo alla cannuccia.
Che poi dico, mi piacesse almeno, il latte. Ma chisseneimporta.
Da ieri ho un nuovo momento di trascurabile felicità.
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cosedinessunaimportanza
_Diario di bordo.
cosedinessunaimportanza (28 ottobre 2015)
Ieri mi è capitato di camminare per la città e incontrare, in luoghi diversi e a orari diversi, donne in lacrime. Adulte o giovanissime, in pausa pranzo o sulla via del rientro a casa, accovacciate per terra come se il peso della telefonata in corso richiedesse una pausa dal moto, con passo marziale, con le cuffie o senza, impavide di traffico e pedoni, cani al guinzaglio e semafori. Unite dalle lacrime.
Mi ricordo di aver pensato che molto probabilmente piangevano per un uomo. Lo so, perché ho involontariamente origliato le schegge dei loro dialoghi, attraversando con loro il silenzio di un incrocio, nell’attesa di un verde che sanasse dolori dell’anima e del traffico.
Ho pensato che avrei voluto dire a ognuna di loro che non valeva proprio la pena, piangere per un uomo. Che erano belle, lì nel loro dolore, e tenere, e forti, e con un sacco di motivi per tornare alla loro vita, felici. Che probabilmente l’interlocutore all’altro capo del filo non lo sapeva nemmeno, non lo immagina nemmeno, quanto loro siano belle, grandi, forti, donne. O forse lo sa, ma non gli importa, o non del tutto, o non nella giusta quantità, probabilmente.
E poi ho pensato che una volta è successo anche a me.
Ero in un parco di periferia, sotto un diluvio primaverile. Una pioggia che avrebbe dovuto lavare via le macchie del dolore e della disperazione. Mi ricordo che stavo su una panchina in mezzo a questi alberi sparuti tra il cemento, fradicia di pioggia e di lacrime, e mi sembrava tutto così ingiusto ma anche un po’ poetico, questo stare lì, in mezzo all’acqua.
Mi ricordo che una signora mi si avvicinò, e mi disse proprio quelle parole, che no, non valeva la pena piangere così, per qualunque cosa io piangessi, per qualunque persona io lo facessi. Che io ero meglio, e che mi dovevo fidare di lei.
A un certo punto, ricordo, mi feci ragione delle sue parole. Mi asciugai per così dire gli occhi, ormai pieni di pioggia più che di lacrime e realizzai dove fossi, così come capita quando nei film il protagonista sta per morire e si vede dall’alto e capisce tutto della sua vita e giura che se non muore cambierà tutto, stavolta.
E mentre lo pensavo, mi sono ricordata però che di motivi per piangere ancora un po’ ce li avevo eccome. Per esempio perché nella mia sceneggiata romantica e dimentica del presente, ero uscita sì sbattendo la portiera dell’auto fuggendo nella pioggia del pineto di borgo vittoria, ma avevo dimenticato che al volante c’ero io, che la macchina era mia, anzi per la precisione di mio padre, e che le chiavi, insieme presumibilmente al soggetto maschile per cui versavo calde lacrime, erano saldamente ancorati all’interno dell’abitacolo.
Così mi ricordo che mi alzai dalla panchina e andai a riprendere in mano chiavi, vita e futuro, persuasa, più che dalla verita cosmica rivelatami dalla signora, dal fatto che mio padre poco avrebbe gradito il furto d’auto, ancorché accompagnato da uno strepitoso racconto romantico.
E da allora penso davvero che no, non valga la pena piangere per un uomo. Non per strada, non se sei una donna, giovane o vecchia o adulta, forte o debole ma bella della tua bellezza unica che hanno tutte le donne, e piena di risorse incredibili. Perché le donne sono fatte così. A un certo punto si ricordano che è finito il latte, che sta per iniziare la lezione, che il figlio è a tennis ad aspettarle. Che la macchina era la loro.
Così per fortuna si alzano, si asciugano le lacrime, e si scrollano il presente umido dalle scarpe.
Per questo, alla fine, non gliel’ho detto, che non valeva la pena.
Lo sapevano già.
50 vele al vento
Facebook mi ha riproposto stamattina una foto del 24 ottobre di 7 anni fa. Era l’autunno successivo al mio viaggio cubano, e in particolare era il giorno che precedeva la premiazione di un racconto, “Sportello 12”, che alcuni anni dopo sarebbe confluito in Boris e lo strano caso del maiale giallo.
Quel 24 ottobre pioveva e la foto di Facebook ritraeva quello che potevo osservare dai vetri del chiosco del Poetto, un lembo di spiaggia punteggiato dalla pioggia leggera, due passanti stretti in un abbraccio, 50 vele nel vento di tramontana.
Non lo sapevo, ma il giorno dopo sarebbe stato l’inizio e anche la fine di molte cose. Tra quelle che sono iniziate, anzi, che sarebbero iniziate di lì a poco, c’è l’amicizia con Antonio Cipriani e Valentina Montisci.
In mezzo le conferenze spettacolo dedicate al giornalismo di guerra, le puntate cubane su Globalist.it, la Milano dell’Isola, Torino e l’associazione Pretesto Torino, il Bar Pietro – piola sardo-veneziana, e i sorsi rossi, e ancora Boris, la militanza resistente, viva gli sposi a Rimaflow, Claroquesí. Cartoline dalla rivoluzione e la Toscana, finalmente.
Per questo l’appuntamento del 2 novembre 2018 è un po’ come se fosse un compleanno. Il compleanno di un’amicizia nata tra i libri e portata lontano.
Per questo sono affezionata a quella foto sulla spiaggia, con le gocce di pioggia sul vetro appannato. Perché contiene la vita che ancora doveva venire, perché contiene questo bellissimo presente.
Assenze
È passato un anno.
Dalla tua morte e da quando l’ho saputo. Erano giorni che stavo appesa al wifi, nei modi rocamboleschi in cui si può essere appesi quando si è dall’altra parte del mondo. Ricordo benissimo quando Elisa mi ha detto che eri sprofondato in un sonno senza ritorno. Che il tuo respiro era però sereno. Che ti erano vicino. Che ti sussurravano all’orecchio che ti volevamo bene, tutti quanti. E io ero appesa a questo filo, e mi chiedevo il peso dell’esserci e del non esserci quando dobbiamo andare, se ci sentivi davvero, se eri sereno davvero. Joe dormiva buttato su una fila metallica di sedie di un gate qualunque dell’aeroporto deserto di Ho Chi Minh. Fuori il cielo era pesante, livido; ogni luce era appesantita dalla pioggia battente. Eravamo da soli, spersi in un non luogo, sospesi nel tempo e nell’attesa. Di partire, di sapere. Ero da sola, a camminare avanti e indietro per la paura che il nostro volo non partisse, che la notte inghiottisse anche noi, oltre a te. Ripetevo a me stessa istruzioni pratiche: cambiare scheda telefonica, trovare soldi nuovi, trovare tuk tuk, arrivare in albergo, connettermi. Una notte interminabile, fisica, piena di niente. Mi faceva paura. Una paura condita dal senso di colpa. Stavo per arrivare in uno dei luoghi che avevo sognato da sempre, con il cuore gonfio di dolore. Siamo saliti su un volo semivuoto, siamo atterrati in una notte caldissima e silenziosa, Chan ci aspettava fuori con il Tuk Tuk, i vestiti si attaccavano addosso per il vento umido. Visioni in penombra, pensieri, fame, sonno, sete.
Quando finalmente mi sono addormentata, quella sera piovosa e calda, ero in un nuovo altrove.
Non sapevo ancora, lo avrei saputo il mattino dopo. Ma ti ho sognato, quella notte. Ho sognato che eravamo tutti a tavola. Stavi bene. Senza ferite, senza menomazioni, senza dolore. Ridevi forte, sorridevi. Mi sono svegliata con la notizia che te ne eri andato. E ora so per certo che in quel sogno, eri venuto a salutarmi. Avrai pensato che ti avevo fatto fare una faticaccia, tu che non amavi quasi più uscire di casa. Ti avevo costretto a venire fino in Cambogia per il nostro addio.
Il giorno dopo camminavo tra le radici secolari degli alberi immensi che imprigionano i templi di Angkor. Silenzio, verde, quiete. Mentre eravamo in bilico sulle pietre calde di un tempio, abbiamo trovato delle bacchette di incenso e un piccolo altare. Uno di quelli disseminati ovunque, dedicati a Buddha, dedicati agli uomini.
Ci siamo guardati, ne abbiamo accesi due. In silenzio, mentre Joe fumava una sigaretta, seduto sul bordo di un tempio nella giungla dall’altra parte del mondo, abbiamo aspettato che si spegnessero, piano. Con le mani giunte, con la natura immensa e immortale innanzi a noi, ti abbiamo salutato a nostro modo.
Poi siamo tornati e c’è stato tutto il resto. Veloce, doloroso, a suo modo inevitabile e necessario.
È passato un anno.
Remedios ha imparato a nuotare, zio. Fa anche i tuffi sotto l’acqua senza bere (quasi mai).
Ettore ha una carrozzina nuova fiammante, la chiamiamo “spider”, e in effetti è un prodigio come lui che ride tantissimo in particolare quando butta via gli oggetti che ha imparato ad afferrare.
Adora la musica come te, ti renderà orgoglioso.
Sister si è fatta due tatuaggi bellissimi, madonna quante discussioni avremmo fatto su questo tema con te.
Papà costruisce circhi volanti in salotto, appendendo pupazzi al lampadario: che te lo dico a fare, lo conosci, fa quello che faceva con noi, al cubo.
Mamma ha fatto la bagna cauda per la prima volta dopo 40 anni. Ho pensato che quando si rompe qualcosa, si aggiusta qualcos’altro, per compensazione. L’abbiamo dedicata a te, e abbiamo stappato un tuo barolo del ’75. Non ti offendere, era ora di farlo. E tu ci hai sempre detto che le cose vanno vissute, godute. Ti abbiamo preso alla lettera. Le manchi tanto, più di quanto tu possa immaginare.
Joe ha restaurato il comò della nonna e già che c’era pure quello di Coassolo. Stravede per il tuo libro “come aggiustare tutto”, hai creato un mostro.
Abbiamo regalato i tuoi libri alla biblioteca della città della salute e ai detenuti del carcere di Saluzzo. Glieli abbiamo portati io e papà una mattina piovosa d’autunno… che se il carcere è triste, pensa con la pioggia e la nebbia… Hanno fatto mettere una piccola targa per te, e hanno riso sommessamente quando ho detto timidamente che tu amavi i legal thriller e i libri di squartamenti vari.
Io ho organizzato un festival culturale, ho finalmente pubblicato il libro su Cuba, ho pianto abbastanza, riso molto, ho cercato il mare tutte le volte che ho potuto.
Solo l’inglese non l’ho ancora imparato bene, e con la chitarra va ancora così così. La suono sempre e solo il 6 di gennaio, dopo i propositi di rito di ogni inizio d’anno.
Ah, Salvini è andato al governo. È ministro dell’interno ma sembra il premier. Non avrei mai pensato di dirlo, ma rimpiango le nostre discussioni su Silvio. Non ridere ti prego. Anzi, ridi va, che ne abbiamo bisogno quaggiù.
La tua Alfa Sport a è ancora in garage. Forse riusciamo a farla rivivere, stiamo pensando a come fare. Se penso a quando ci incastravi dentro la nonna con la pelliccia e le scarpe da tennis, ancora rido tantissimo da sola.
E ti penso.
Non è passato un giorno senza che io ti abbia pensato, zione.
Non è passato giorno senza che tu mi sia mancato.
Ma so che in fondo lo sai anche tu.
Claroquesí. Cartoline dalla rivoluzione
Oggi esce Claroquesí . Cartoline dalla rivoluzione.
Lo pubblica Antonio Tombolini Editore, nella nascente collana Roads, guidata da Giulia De Gasperi, paziente, appassionata e professionalissima editor con cui tanto ne ho parlato, nelle nostre lunghe conversazioni oltre oceano – io a Torino, lei in una piccola isola a largo delle coste del Canada. Ci sono molto affezionata, per mille motivi: mi ha tenuto compagnia mentre prendeva corpo, nelle notti febbrili dopo il mio rientro dall’Isola, è diventato parole, e poi storie, e poi racconto prima nella mia mente, poi sulle pagine bianche di un foglio digitale, tra le dita che si muovevano sulla tastiera. Grazie ad alcuni amici, che oggi ringrazio (Antonio Cipriani e Valentina Montisci) è diventato un racconto d’estate di alcuni anni fa. E oggi, finalmente, è un libro, di cui sono orgogliosa, perché ha cambiato il modo con cui guardo il mondo, rendendolo ancora più umano, pieno dei dubbi che vivificano una vita e delle sorprese inaspettate che rendono il viaggio un’esperienza di cambiamento. Non so se qualcuno abbia mai detto che si scrive sempre perché qualcuno ci legga, prima o poi. Io – che normalmente scrivo per me stessa, come urgenza vivificante, e come modo di stare al mondo – penso che se non lo ha detto nessuno, qualcuno dovrebbe dirlo. Riprova ne è che il motore per la stesura di Claroquesí è stato il pensiero che a leggerli sarebbe stata una persona speciale, che mi aveva spinto a sgranare gli occhi sul mondo che avrei visitato per la prima volta. Oggi a questa persona va un pensiero e un ringraziamento, pubblicamente e discretamente, come noi sabaudi amiamo fare.
***
Claroquesí è nato sette anni fa, dopo un viaggio dentro le mie convinzioni di giovane donna, militante e occidentale. È nato per il desiderio di mettere su carta i pensieri affiorati lungo la Carretera Central, dentro i negozi vuoti, i mercati razionati, il profumo di pane, la luce scarnificata delle città di notte ma anche dentro la musica allegra del ron, l’ospitalità degli sconosciuti, la condivisione del poco per tutti. Non un libro di viaggio, non un libro politico, non un romanzo, non una cronaca, ma tutte queste cose insieme. Per provare a intrecciare con la narrazione il possibile delle storie quotidiane e le zone d’ombra della Storia, nel limbo sospeso della fine del Periodo Especial. Un modo per raccontare disillusione, speranze e, soprattutto, un altro modo di stare al mondo.
Claroquesí è un grazie sincero, dedicato agli incontri piccoli e grandi che mi hanno restituito un presente più consapevole.
Se qualcuno volesse acquistare “Claroquesí. Cartoline dalla rivoluzione“, potrà farlo sullo store di Antonio Tombolini Editore (in formato carta e ebook) oppure su amazon.it
Il libro che sarà
Non amo particolarmente guidare.
Amo farlo però lungo le strade assolate della bassa Puglia, lungo il tacco dello stivale, in quel nugolo di strade che si fanno posto tra campi e muretti a secco, sotto il cielo basso di nuvole piene e orizzonti ampi. Mi piaccono gli ulivi che si rincorrono a destra e a sinistra, le campagne che ritornano verdi e stampano contrasti sui cieli di pioggia, il profumo di mare che arriva a tratti insieme agli odori della macchia, e che anche d’inverno stupisce l’olfatto.
Mi piace guidare verso le case delle persone a cui voglio bene, in questa terra che mi ha accolta e che mi restituisce il senso della possibilità, una terra in cui sta crescendo un progetto lungo e bello, fatto di donne, per le donne, con le donne.
Per questo io, S. e la piccola unenne A. ce ne siamo andate in giro a incontrare le protagoniste delle storie che vorremmo raccontare. Donne che hanno visto secoli diversi avvicendarsi, donne che hanno speso una vita in cui dentro ci stanno mille vite, donne lavoratrici e donne madri, perse nei campi di tabacco e nelle fabbriche, nelle cucine in penombra delle masserie e nel dolore dell’emigrazione, donne che sono tornate perdendo qualcosa, donne che hanno riscoperto la libertà con pazienza, aspettando che prima ce l’avessero tutti gli altri, donne che sono rimaste, donne che sono. E così siamo state a Corsano, a sentire le storie delle tabacchine di Ginosa e di chi è emigrata in Svizzera perché qui non c’era futuro. Siamo state a Guagnano a sentire le voci simbolo delle 250 donne che nel 61 scioperarono per il lavoro e per una emancipazione fatta di identità ancor prima che di possibilità. Siamo state a Corigliano d’Otranto dentro gli occhi di Angela che di anni ne ha 91 e siede all’ombra della masseria di suo figlio, con gli occhi che ridono nel pensare al destino come futuro, prima e al posto di ogni scelta possibile. Siamo state da Ulla e dentro il suo tempo di donna immigrata, straniera per amore, salentina per adozione, che ha fatto di una terra la sua casa, portandoci famiglia e cuore, e provando a costruirci il resto.
E siamo state in treno, sulla Maglie-Gagliano del Capo lungo la ferrovia Sud-Est, a cercare nei sedili di pelle e nei finestrini appannati di pioggia e umidità il senso di un antico passare per le campagne, tra paesi e vite, tra case cantoniere e rotaie lente come le nuvole.
Bello questo libro che nasce dentro i legami delle persone, che si alimenta di reti e di amici, che si estende nel tempo dentro il tempo delle persone, coinvolgendole in una storia che tutte ci riguarda.
#Metoo
Facevo quinta liceo.
Non so perché quel giorno decisi di andare a scuola con il tailleur, io che portavo i pantaloni praticamente dal primo anno di asilo.
Ma era verde acido, era fatto su misura, ed era bellissimo.
Quel giorno c’erano due ore di disegno tecnico. Compito in classe, assonometrie, chine, ecoline, lametta per cancellare righe altrimenti indelebili.
La faccio breve: per contrastare la poca comodità della gonna a tubino mi sedetti in punta di sedia, così da governare bene squadrette e compassi.
Il prof si avvicinò, scambiammo battute che non ricordo, poi – senza che potessi immaginarlo, pensarlo, perfino temerlo – si sedette a cavalcioni sulla mia stessa sedia, tra lo schienale e la mia schiena. Appiccicato al mio corpo. Diventai di ghiaccio. Provai un misto di imbarazzo e colpa, rabbia e timore. Lui, schiacciato su di me, si godette la mia totale incapacità di reagire e poi, dopo avermi soffiato sotto la nuca, mi sussurrò nell’orecchio: “E adesso protesta pure”.
Non capitò altro, ma ancora mi indigno con me stessa per quel gelo nelle vene che mi spense in gola la protesta.
Questo breve post è comparso sulla mia pagina facebook il 16 ottobre 2017. per cui due giorni dopo è comparso un altro post, questo.
La vicenda che ho narrato brevemente è ovviamente più complessa di quanto fb permetta, ma io me ne infischio degli algoritmi e delle norme di social editing, e provo a riprenderla per piani differenti. Perché da quello scritto sono nate parole, mail, telefonate e mi sembra giusto restituire la ricchezza di questi scambi.
Un “uomo” che provava piacere a propinare imbarazzo, forte del ruolo giocato dietro il sottile velo del sottinteso, del fraintendimento, della provocazione, pronto sempre a ritrattarla, nasconderla, mascherarla.
Ché qualcos’altro, ancora, brucia il cuore
Ho avuto molte ore per pensare, in questo mio lunghissimo viaggio di ritorno dall’Asia.
Ore spese per abituarmi all’idea che oggi avrei dovuto salutarti per sempre. Sono ancora incredula, stranita, come catapultata in una realtà aliena. Ho provato a ripercorrere la mia vita insieme a te, la nostra storia da quando io ti ho raggiunto al mondo. E, sorprendentemente, tra tutti i pensieri e le immagini confuse, una domanda si è fatta insistente: quanti sono i sorrisi che si possono contare nella vita di una persona? Quante le risate scambiate? E, ancora più sorprendentemente, mi sono accorta che questa era l’immagine di te che emergeva con più forza nel mio ricordo.
Ed è strano, se penso alle migliaia di litigate furibonde che abbiamo fatto, discutendo sui massimi e sui minimi sistemi, da Dio al sale in tavola, dal rock ai vestiti, dalla politica alle patatine che nascondevi dietro i mobili per mangiartele in santa pace, al riparo dalle nipoti.
Eppure è il tuo sorriso che ho scelto di portare con me.
Quello che arrivava prima di un moto arguto o dopo una barzelletta pungente, quello che accompagnava un gesto gentile o i saluti sulla porta, quello della telefonata al rientro dalle vacanze o dell’apertura dei regali (qualunque regalo: da quelli di Natale rigorosamente impacchettati e scartati la mattina del 25 alle 12,30, quelli del compleanno che volevi ugualmente anche se a due giorni dalla vigilia, quelli che riportavi, sistematicamente, indietro, dopo averli aperti).
Il sorriso del pranzo di capodanno con il concerto viennese in mondovisione e quello delle serate di Sanremo registrate dalla tv, quello di quando giocavamo a carte e tu baravi e ridevi perché io non me ne accorgevo mai, quello con cui guardavi i tuoi piccoli nipotini e quello con cui mi mostravi il tuo ultimo acquisto tecnologico.
Il sorriso che seguiva gli scherzi o i racconti della tua infanzia con mamma, a Lucento, quello con cui accarezzavi il “tenero” (per te) e feroce (per noi) Musetto, il sorriso con cui parlavi di nonna.
Il sorriso, ancora, delle risate piene, che arrivavano all’improvviso. Ce ne sono state tante, anche negli ultimi mesi, quando di motivi ce ne erano pochi. Ogni tanto riuscirvi ad essere ironico e sardonico, salvo poi stizzirti perché non ti capivamo…
L’ultima l’abbiamo fatta pensando agli orientali che si salutano con l’inchino. “Non prendere capocciate quando sarai laggiù”, mi dicevi, “ricordati che devi solo “accennarlo”…”.
E infine, ancora ieri, quando ti ho rivisto, mi è serbato di scorgerlo, per ironia beffarda della sorte, sul tuo volto rasserenato.
Eravamo così diversi, eppure in fondo così simili, come dicevi tu, facendomi arrabbiare tantissimo.
Ora penso che un po’ tu avessi ragione, e nella tua fragilità accolgo e riconosco la mia.
Tra tutti i momenti, per salutarti ne scelgo uno.
Era una mattina d’estate, nella casa vecchia di Coassolo. Tu eri al tavolo di legno scuro, con la tazza di caffè riscaldato e la Gazzetta aperta sulle news del Milan. Io ti guardavo con la coda dell’occhio per cogliere il momento in cui poter leggere la tua Stampa senza stropicciarla per prima. Una volta conquistata, la stendevo per terra, nel raggio di luce che filtrava netto da fuori, tra le ombre delle piante, e seduta sul divano mangiavo pane e formaggio che la nonna preparava per entrambi.
Spero, mi auguro che ci sia un luogo in cui un giorno potremo tornare a salutare di nuovo il giorno che nasce, insieme.
Ti voglio bene zione.
Survivor’s Stories
Ieri Raneb è andato in gita.
Ad ascoltare la sua storia egiziana c’erano 45 paia di occhi, curiosi e attenti. I proprietari di alcuni di quegli sguardi, i più grandicelli, conoscevano il mistero della piuma, il fascino del viaggio dell’oltremondo, il potere immaginifico dei geroglifici.
Il resto è stato facile: lasciar fluire le parole, aggiustare in presa diretta il racconto, smussare i vocaboli più difficili, inserire una battuta, sottolineare i passi con i piedi, battere le mani, muovere le dita nell’aria insieme ai segni danzanti sulle pareti del tempio. Raccontare cosa sia una storia, tracciarne i contorni, immaginare i tasselli che la compongono per scoprire che non servono regole. Non a 10 anni, non d’estate su un prato all’ombra.
Nessun racconto come questo, tra quelli che ho scritto, si presta ad essere letto e riletto presso un pubblico così esigente e così attento come quello dei bambini. Il timore della chiusa troppo rapida, del senso nascosto dietro poche righe, mi assale sempre prima di ogni inizio. Ma il piacere dei suoni, la ruvidezza dei tessuti, la polvere che si alza, la frescura in gola dei sorsi d’acqua di Raneb, prendono il sopravvento e si prestano a farsi racconto del racconto: come si scrive, perché si scrive.
Esercizio utile all’autore oltre che all’ascoltatore, ancor più che del lettore: sentire in bocca la musica dei suoni, i verbi che si arrotano rotondi, gli articoli che incespicano, gli aggettivi lunghi come i treni delle vacanze che stonano, una volta che la voce li ha animati – e che pure tanto ti piacevano, mentre li leggevi con gli occhi, in silenzio – e ancora il piacere delle domande e la precisione puntuta delle risposte: i sandali, come sono i sandali? Di tela, di cuoio, di paglia? Il muretto è a secco? l’aria è tersa o umida, le stelle brillano o rifulgono, le pareti sono scivolose, ruvide, levigate, calde, fredde, incise e la voce, la voce è potente, il dattero dolce?
Fare un laboratorio di scrittura con dei bambini significa non solo ritornare piccoli, aprire i boccaporti del ricordo e far sgranchire i pensieri al sole del mattino… significa porsi e farsi porre domande a cui non avevi pensato: conosci i luoghi che hai descritto? Inventi sempre le tue storie? Quando capisci che una cosa va raccontata? Vorresti cambiare la tua passione? Hai mai scritto una canzone, vorresti farlo, posso farlo io? Deve essere tutto vero, e cosa è “vero”?
Le due esperienze con i bambini di Atelier Héritage nei loro #pomeriggiletterari in Barriera di Milano e dell’estate ragazzi English Survivor, immerse ciascuna nel proprio contesto urbano, hanno ri-aperto in me cassetti della memoria semichiusi, riportando alla luce le storie scritte all’ombra di altri alberi, in un tempo che si conta sulle dita di due mani in luoghi che non esistono più. Le ricreazioni passate sotto il nocciòlo a intrecciare trame, la paziente azione di ricopiatura (la “bella”, applicata anche al testo della fantasia), la penna a sfera, il regalo.
Insegnare a scrivere storie non è didattica, non è nemmeno scrittura creativa. È un processo condiviso di scoperta, è libertà di immaginazione, è il piacere di mischiare le carte e di creare nuove realtà, è colorare i capelli di un personaggio e inventarsi il suo destino, contro tutte le logiche degli adulti. E’ scrivere con un pennarello con la punta grossa e correggere gli errori con le righe, è rimbalzare i pensieri insieme al pallone nel prato, è esercizio democratico di compromesso e costruzione paziente di un immaginario comune.
Inventare insieme una storia è un atto di fiducia e di scambio, è ridere di una trama inaspettata e di una licenza inattesa. Perché chi se ne importa se nel Cinquecento non c’erano le navicelle spaziali: c’era la fantasia di chi le immaginava; che importa se il “pianeta verde” non è stato ancora scoperto: noi ci arriveremo con un volo di linea partito il 5 ottobre, perché in ottobre succedono le storie di mistero. Che importa se Lady Scarlet ucciderà il comandante con un cocktail su una nave da crociera ma poi la nave affonderà perché il motore brucia… la fantasia non ha limiti, la creazione non ha paletti. Sono solo la logica e le pagine ad avere contorni. Noi abbiamo solo bisogno di altri fogli per scrivere e di un prato per raccontare le nostre avventure. Ricordando agli adulti, come me, che essere liberi si può.
The Travelogue – la nuova rivista online è pronta!
Gli autori di Antonio Tombolini Editore, credono che la letteratura, la scrittura e in generale i libri debbano circolare, come le idee, come i progetti.
Per questo è nato “The Travelogue” una rivista letteraria su Medium, in cui confuiranno i racconti di viaggio di scrittori.
Non un semplice blog di viaggiatori, ma qualcosa di più ambizioso: The Travelogue è una rivista on line curata da scrittori che viaggiano, alla ricerca di spunti, suggestioni, emozioni da trasformare in storie. Il viaggio per noi è una fonte di ispirazione, uno strumento per allargare i confini delle nostre vite, una scusa buona per inventare una nuova storia. La scrittura per noi è una necessità.
Per adesso ci trovate i miei articoli, quelli di Ilaria Vitali e di Massimo Lazzari. Presto sarà collegato anche alla collana Roads di Antonio Tombolini Editore, curata da Giulia De Gasperi.
Un motivo in più per seguire luoghi letti con gli occhi di chi non può fare a meno di descrivere il mondo con le parole.
Seguiteci, seguitelo, raccogliete scrittori, diffondetelo…