Io sto con Boris… anche in carcere

Metti una calda giornata d’agosto, metti un albanese, due napoletani, un siciliano, due calabresi e un marocchino, metti un laboratorio in una sezione di alta sicurezza in carcere, lancia una sfida letteraria… e goditi le parole sincere di un gruppo di persone sui generis che la vita ti ha messo lungo il cammino.
Boris ha trovato nuovi compagni di strada, lettori attenti e scrupolosi, con tanto di vocabolario in mano per meglio comprendere l’italiano, spesso imparato in carcere tramite le lettere scritte a mano.
Ci sono soddisfazioni grandi che partono da cose piccole, come quella di ricevere attestati di stima quando, dove e come non te lo aspetti.

Ripartire dagli ultimi significa sentirsi ultimi, e sentirsi ultimi aiuta a essere persone migliori, e aiutare gli altri ad esserlo.

 

Selamat Datang

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Arbain Bin Kadirun è l’Imam del villaggio di Patu Puteh, nella regione del Kinabatangan, nello stato di Sabah. Vive nel cuore del Borneo malese, a 150 km dalla città più vicina, che si chiama Sandakan ed è forse una delle più brutte al mondo. Per arrivare a casa sua ci vogliono almeno 19 ore, 3 aerei e un paio d’ore di pullman. Almeno, questo è stato il tempo che ho impiegato, tappe intermedie comprese, per essere ospite a casa sua.

Arbain vive con sua moglie, due figlie femmine e un figlio maschio. Prima c’era anche la nonna, ma  è scomparsa da poco. Lo ricostruisco io, mettendo insieme i pezzi del puzzle planisferico che ho sotto gli occhi mentre sbircio dentro la sua casa. C’è un ritratto di famiglia, con la nonna presente, la stessa nonna che la figlia più piccola mi mostra in un filmato registrato sul cellulare. Devo dire una nonna non in salute, accolta in un letto d’ospedale da tubi e tubicini. Ma la bimba sembra contenta, nel ricordala. Lo intuisco, perché io non parlo malese, e nemmeno uno dei dialetti dei discendenti degli Iban ancora presenti in queste terre, né tantomeno cinese o tamil. Per cui ci aggiustiamo a gesti e a sorrisi, che ci si capisce benissimo lo stesso.

Arbain e sua moglie K. hanno aderito al programma della comunità Mescot, che ospita persone desiderose di percorrere 11mila chilometri per andare a piantare alberi nelle foreste liberate dalle piantagioni latifondiste delle multinazionali, come me e le mie amiche. Una cosa, quella di piantare gli alberi, che facciamo solo noi stranieri a quanto ci spiegano in seguito, ma che fa tanto bene alle persone del posto che così prendono esempio. Così ci dicono, ma non Arbain, che è una persona gentile.

Arbain non c’è mai, o quasi mai, in casa. Essendo l’Imam, guida la comunità del villaggio e si reca diverse volte durante la giornata presso la moschea. Il Villaggio Batu Puteh è musulmano, ma questa è solo una delle varie possibilità religiose dell’isola. Nei giorni precedenti, in un’altra parte sperduta di questa foresta immensa che è il Borneo, nello Stato di Sarawak, ad accoglierci era stato invece un villaggio cristiano di discendenti degli Iban.
I tagliatori di teste, per intenderci.
Discendenti cristiani di tagliatori di teste, per capirci. Che ci avevano accolto con una testa di maiale arrostito e grappa di riso in bottiglie di plastica.
Per intenderci.
Il villaggio di Arbain invece è un’oasi di serenità. Arbain e sua moglie, come tutti i vicini, vivono in baracche di legno leggermente sollevate da terra, Homestay essenziali, con tetti di lamiera e grossi cilindri fuori da casa con un rubinetto corrente a fungere da doccia e ristoro.
La cucina della casa di Arbain è a vista, nel senso che è all’aperto, e si vede la foresta che sta tutt’intorno al villaggio. Sua moglie K. di giorno si inerpica dentro il fogliame e se ne torna con ceste piene di “erbe della foresta”, specie di costine ricurve con ghirigori arabeggianti che sono squisite e verdissime.
K. ha preso sul serio il compito dell’accoglienza, e ci ha preparato un pranzo di benvenuto, a base di riso, frutta, spezzatino di carne, ciambelle. Non mangiamo tutti insieme però; solo io, la mia compagna di ventura V., la signora K. e una delle bambine, quella che è riuscita con fatica a sottrarre al gioco esattamente come qualunque mamma italiana nei pomeriggi d’estate.

Selamat Datang, benvenute, ci dice K.
Arbain arriva questa sera, dice ancora, in un inglese ancora più acerbo del mio, che me la rende subito simpatica. Dopo pranzo abbiamo tempo per riposarci nella camera che ci hanno riservato. Dato che non c’è posto a sufficienza, hanno fatto che darci il loro letto nuziale. A nulla valgono le nostre proteste: dormiranno tutti insieme in una stanza, per terra o sui cuscini, che l’ospite è sacro.
La stanza da letto è una stanza come tutte le altre nella casa, solo con un letto. Come le altre nel senso che non ci sono altri oggetti, soprammobili, tappeti o sedie. Solo un buco nel pavimento da cui entrano formiche copiose, una finestra sul retro del cortile dove una capra si lagna alternandosi al gallo del cortile vicino e una lampadina che però si può accendere solo in alcuni orari, perché di notte il generatore si spegne per risparmiare energia. E con esso anche i ventilatori, l’acqua corrente del bagno, la luce della casa.

Arbain ha un grande Corano posto in bella mostra nella stanza principale. È bellissimo, tutto decorato e miniato. A fianco del Corano c’è il mobiletto della tv, accesa notte e giorno. Sua moglie guarda una specie di telenovela sdraiata sul legno del pavimento, che mobili non ce ne sono, appunto.
Dopo la siesta K. ci insegna a cucinare un paio di piatti locali. Usiamo olio di palma, verdure, riso e condimenti a base di peperoncino. Mi appunto la ricetta della torta di banane, e mi impegno a inventarmi una ricetta da regalarle perché possa riprodurla qui per la sua famiglia.
Non me ne vengono. Non abbiamo gli stessi ingredienti, non esiste forno, è un pasticcio. Ci penserò a casa, con calma, e prendo tempo cercando di non far scuocere le verdure scottate. Usiamo sempre la stessa pentola, sciacquata velocemente con un po’ d’acqua gettata poi dalla finestra sulla foresta, in spregio alle regole base della vita green. Mi vengono in mente le parole sugli alberi da piantare e forse capisco meglio cosa volessero dirci, stamattina.

A un certo punto K. ci dice che siamo in ritardo e che dobbiamo andare. Lasciamo il pasto in caldo, e ci avviamo con lei verso l’uscita della casa. Ci rimettiamo le scarpe, che avevamo lasciato fuori sui gradini di legno, e la seguiamo verso il centro del villaggio.
Da lontano, vediamo nugoli di persone convergere verso lo stesso punto, tutti allegri.
Io temo che sia il momento della preghiera corale, invece è il momento della socializzazione.
Sport, per la precisione.
Volley su selciato, per la precisione.
Con mio grande stupore, tutto il villaggio si ferma.
La rete da pallavolo si staglia tutta ondulante sotto il Kinabatangan Bridge. Le squadre vanno formandosi tra i convenuti. Donne, uomini, bambini, ragazzi, ragazze, velate, senza velo, tutti scalzi, tutti felici. Ci sono molti ragazzi omosessuali, lo noto perché è impossibile non notarlo. Ma non è no sguardo pruriginoso, ma di stupore felice. Che siano dichiarati o meno non mi è dato saperlo ma nessuno, in questo sgarrupato villaggio musulmano baraccato sotto il ponte, sembra curarsi dell’orientamento sessuale di chicchessia, e tutti giocano con tutti.
Ci chiedono se vogliamo far parte di una squadra. Intanto sono sopraggiunte anche le altre due compagne di viaggio, dislocate presso un’altra famiglia. Ci sediamo vicine sull’asfalto caldo, tra bimbi in bicicletta, cani a zonzo e caprette.
Io farfuglio qualcosa, la schiena, la stanchezza… in realtà vorrei giocare, ma la tentazione di assistere a questa scena insolita e pacifica come osservatrice ai bordi della vita degli altri alla fine vince su tutto.
Osservo le persone, i loro sguardi, i loro gesti. Mi sembra che in questo villaggio ci sia una regola implicita di rispetto e spazio, di tolleranza e inclusione. Di attenzione per i singoli, per i diversi.
A partire da noi.

Quando rientriamo in casa inizia a piovere. Una pioggia ostinata e battente, una pioggia di acqua che si insinua tra case e strade, nelle scarpe lasciate fuori dagli usci, sulle galline che protestano, sulle lamiere, sul legno che respira.

Ceniamo con i piccolini, che ci guardano con curiosità e occhi sgranati. Ci offriamo per risistemare la cucina dopo il pasto, ma in realtà c’è poco da riassestare: le stoviglie sono contate, i bicchieri pure, il contenuto delle pentole finisce dove già so, e tutto finisce lì nell’acquiescenza generale.
Così quando la piccola ci prende per mano per portarci sulla terrazza, finiamo per seguirla senza sensi di colpa.
Fuori inizia a scrosciare pioggia con una certa violenza, la luce del giorno è calata del tutto. Illuminati da una lampadina, i nostri corpi disegnano ombre sul pavimento di legno e linoleum.
Giochiamo a Congkak, o Sungka, o Mancala, come si chiama rispettivamente in Malesia, Filippine o in tutta l’Africa.
Non abbiamo pedine, né conchiglie da usare, o semi, per cui la più piccola si mette scarpe e mantellina ed esce sotto il diluvio tropicale per recuperare dei sassolini abbastanza grandi e abbastanza numerosi per poter giocare. Inutile dire che in breve siamo stracciate. Non riusciamo a piazzare nemmeno una partita, la piccola ci sconfigge da esperta stratega. La base in legno grezzo su cui posiamo le pietre viene spazzata dalle sue manine veloci, guidate da intuito e visione d’insieme.
Capiamo che i principi generali sono la semina e la raccolta, conditi da un certo ingegno previsionale rispetto a dove capiterà l’ultimo sassolino del raccolto che si muove sul tavolo da gioco durante la semina. Mentre la guardiamo, ammirate, decidiamo all’unisono che al nostro rientro le invieremo una scacchiera con tanto di istruzioni tradotte. In lei c’è un futuro da srotolare e far risplendere. Che sia da militare o da giocatrice poco importa: la sua mente richiede ammirazione e spazio.
Lo stupore che mi toglie il fiato arriva però subito dopo. La più grande delle due bambine prende da parte 5 sassolini levigati e grossi quanto i noccioli delle nespole, li soppesa nel palmo della mano lentamente, con fare sapiente, e poi si volta verso di me, sorridendomi.
Non posso credere ai miei occhi: mi sta sfidando a giocare “alle 5 pietre”!
Il gioco della strada, il gioco dell’infanzia, il gioco dei bambini di ogni parte del mondo, il gioco che unisce generazioni e ricordi, ingegno e povertà. Il gioco fatto di niente, senza guantoni o divise, il gioco democratico insegnatomi da mio padre mille e mille estati fa, in una stessa sera di pioggia estiva, sotto la luce di un’altra lampadina precaria nell’infanzia montana di cui serbo ricordi fatti di odori umidi e bruni come la pioggia d’estate, pensieri caldi e bianchi come l’afa agostana, gesti familiari e verdi come le nocciole spezzate con la pietra sul tavolo di quercia.
Penso a mio padre e sorrido. E mentre sorrido arraffo le pietre e le lancio sul linoleum, con la sfida negli occhi. Le bimbe si contorcono gioiose per le risate.

Quando Arbaein torna, è ora di andare a letto. Le figlie si accomiatano dandoci un bacio e regalandoci un sorriso che si incunea tra la pelle e il cuore.
Arbain si siede con noi in terrazza, si accende una sigaretta.
Parliamo un po’? ci chiede.
Poi inizia a raccontare. In un ottimo inglese ci narra la sua vita, ci descrive la sua famiglia, le tradizioni del suo popolo, il loro cibo, la natura che li circonda. Per fortuna V., che abita con me, conosce benissimo la lingua dell’impero, e io mi accoccolo dentro il suono delle loro parole, cogliendo il senso generale della discussione su petrolio e inquinamento, su geopolitica e natura.
A un tratto ci domanda del nostro paese, della nostra città, delle nostre vite.
Sorride curioso e ride a crepapelle quando scopre che da noi no, non abbiamo davvero scimmie sugli alberi, e che sì le banane le importiamo.  Ci chiede quale sia l’animale tipico da noi, e con non poca esitazione risolviamo che orso, gatto e lupo possano andare bene, che già a descriverli è una fatica dialettica e immaginifica.
Arbain dice che i suoi figli vanno a scuola da soli, ogni mattina. Camminano per due chilometri, poi un pulmino viene a recuperarli. Hanno tutti una divisa pulita e ordinata. Blu e bianca. Le bambine, che io ho visto scorrazzare in casa in pigiama e per il villaggio con pantaloncini e maglietta, vanno a scuola con il velo. Sua moglie il velo non lo porta, però nelle foto di circostanza sì. Sono un po’ confusa, ma poi penso che ho appena descritto il mio paese come infestato da belve feroci ad ogni angolo di strada, per cui taccio sulle stranezze altrui e sulla lingua.
Solo una cosa mi infastidisce.
Quando mi domanda se la nostra città è proprio quella della Juventus (lo chiede molto speranzoso, sottolineando la parola Juventus con gli occhi).
Non me ne capacito. E non è perché io sono di Torino e tifo Toro, no no. Forse è perché qui non esiste la tirannia del calcio e i bambini tirano a canestro o sopra la rete con la stessa gioia nostrana davanti alla palla che rotola, per cui mi suona strano parlare di calcio, nella notte che cade liquida sotto il ponte di ferro arruginito. Ok, va bene, è perché sono del Toro.
Comunque Arbain mi sta simpatico lo stesso.

A un tratto smette di piovere.
Arbain si accomiata: questa notte alle 5 ci sarà la preghiera, e lui dovrà presenziare in moschea. Ci salutiamo con un cenno della mano, dandoci appuntamento per il commiato vero, che sarà nel pomeriggio del giorno che verrà.
Piano, dentro di me, sento farsi strada nel cuore la nostalgia degli incontri, la malinconia delle cose belle appena trascorse che mi accompagnerà da domani in poi.
Da dentro casa avvertiamo il suono soffuso della televisione, e un leggero russare. Suoni domestici, familiari, noti.
Ci alziamo lentamente. Poco lontano, il lungo fiume Kinabatangan dorme placido e giallo.
Trimacase, diciamo in coro, abbassando leggermente il capo.
Grazie.

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Cose di nessuna importanza, ovvero di vacanza

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Racconti da un’altra estate.

***

Ho sempre odiato il billy, la scatoletta di tetrapack al sapore (flebile) d’arancia che andava di moda nella mia infanzia. L’odio si estendeva a tutti gli scatolotti affini, senza discriminazione di gusto o di marca, di contenuto o contenente, di sostanza o simbolo.
Succhi di frutta sottocosto o estathé, il mio era un disgusto chimico, egualitario e democratico.
Però ho amato moltissimo le cannucce.
Negli anni ho imparato a seguirne i percorsi evolutivi, gli adattamenti funzionali e morfologici.
La cannuccia non ha estetica, non vi fate distrarre dai colori. La cannuccia è sostanza. Dai rigidi tubolari cilindrici di formato mignon a quelli a due colori con il taglio obliquo sul lato che perforerà la pellicola dello scatolotto, dalla curva rigida per favorire la suzione al morbido soffietto.
La cannuccia è un miracolo di ingegno. Confesso che ancora oggi, d’estate, mi scopro ad acquistare almeno un succhino, ad aprirne la plastica della cannuccia e a scrutarne lo stato di avanzamento.
Non ho mai pensato che l’innovazione tecnologica passasse da qui.
Ma da sempre mi piace pensare al laboratorio di questa o quella azienda, e a quel qualcuno concentrato a studiare l’adattamento delle cannucce al palato. Signori vestiti di bianco circondati da bicchieri e cannucce, tutto il giorno. Per migliorare un istante delle nostre giornate.
Così immaginerete la mia gioia quando ieri ho aperto la confezione merenda del latte Arborea e ho trovato un piccolo miracolo: una cannuccia completamente nuova, sigillata dal lato della suzione ma con quattro fori ellittici che aderiscono perfettamente all’arcata del palato e alla lingua, rilasciando quantità variabili di liquido.
Come un ebete, sorridevo alla cannuccia.
Che poi dico, mi piacesse almeno, il latte. Ma chisseneimporta.
Da ieri ho un nuovo momento di trascurabile felicità.

Sentieri a Sud

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Ho un nuovo progetto. La sua gestazione è stata lunga, e si è nutrita di chiacchiere e sogni, incontri e letture, sguardi e profumi, mare, terra, ulivi, viaggio.

Il mese scorso, a giugno, abbiamo messo la prima pietra. La settimana scorsa, per la prima volta ne ho parlato a gente sconosciuta, uscendo allo scoperto.  L’occasione ce l’ha data  “Sentieri a Sud”.

Sentieri a Sud è il nome di una piccola rassegna di attraversamenti culturali tra antiche tradizioni e nuovi strumenti di narrazione e racconto. La organizza Kurumuny, la casa editrice salentina fondata dall’etnomusicologo Luigi Chiriatti, conficcata nel cuore della Grecìa, tra Martano, Calimera e Martignano. Il suo nome, Kurumuny, nasce proprio dal territorio. La sua etimologia ci porta infatti al nome che in griko si dà al germoglio dell’ulivo, un giovane ramo, come si legge nella presentazione dell’editore, “che affonda le radici nel territorio, sospesa fra sedimenti di antichità e orizzonti futuri”. Kurumuny è un pezzo di campagna, qualche ettaro di campagna fuori Martano, tra muretti a secco, vecchi frantoi, ulivi resistenti e terra rossa.

A Kurumuny ci arriviamo alla cieca, perché le indicazioni dicono di seguire fino alle ultime vie tracciate dal segnale, e poi chissà. Nel buio della campagna, qualche luce soffusa ci indica il passo. Sopra di noi, un strada piena di stelle, accompagnate dai grilli della notte, fa il resto.
Ci andiamo perché l’8 luglio si tiene il primo incontro previsto dalla rassegna. E Giovanni, che fa il direttore editoriale, a giugno, quando siamo andati a trovarlo nella sede di Martignano, ci ha detto che sarebbe stato bello vederci lì.
Con Giovanni abbiamo parlato del mio progetto nuovo, un libro sull’emancipazione delle donne del Salento, un libro bello che parli di storie che partono dal quotidiano, fatto di incontri e racconti, storie di ritorni e partenze, di progetti e speranze, di investimenti, di sfide e lotte. Un libro che è un viaggio lungo un alfabeto di stazioni che si chiamano come i comuni del territorio, un viaggio in treno lungo la ferrovia del Sud Est, lungo i binari unici che oggi risuonano di altri sentimenti forti e tremendi. La serata dell’8 è un inizio, un modo per immergersi in un territorio non scontato, un mondo conosciuto e amato in tanti ritorni da raccontare con occhi militanti.

Un progetto di rinascita da far partire in una terra che è naturalmente frontiera, approdo, interazione.

Sarà stato un caso, ma la presentazione del libro che dà ragione della serata, la “Favola agrodolce di riso fuori sede”, di Silvia Rizzello, diventa nei minuti che scorrono giusti l’occasione per un’altra narrazione: quella che scopre la terra di Puglia come crocevia di esperienze, con un primo fulcro nella Bari degli anni novanta, durante l’epico sbarco di 20.000 albanesi. Quella che narra storie di integrazioni feconde, come quella di Nabir Bey,  palestinese, voce e autore dei Radiodervish e corrispondente per dieci anni in Italia per Al Jazira. Quella che testimonia, insieme a Mauro Zacheo, la scommessa di un assessorato bellissimo, le Politiche per l’Accoglienza, del Comune di Martano.

Di solito le presentazioni sono noiose. Questa non lo è. E il primo regalo arriva dal pubblico, dalla voce di Maria Teresa che di anni ne ha molti di più dei miei, e li ha passati ad animare culturalmente l’italia ai tempi delle sezioni di partito, ai tempi dei cittadini partecipanti, ai tempi in cui il nostro paese non dormiva un sonno della ragione. Vincendo la mia timidezza inopportuna, cerco Maria Teresa dopo le parole animate, durante la cena conviviale offerta dalla comunità. Grazie a un negramaro generoso nei bicchieri, insieme, sotto le foglie, alla luce delle lampadine delle feste di paese, iniziamo a parlare di donne e politica, di cultura e impegno, di rinascita. Insieme, sulle panche di legno, si rinnova il miracolo dello scambio tra sconosciuti accorsi come noi nella sera d’estate che profuma di caldo per raccontarsi le vite. Il mio compagno è rapito dalla serata, Maria Teresa intreccia le sue mani nodose e il suo carattere caparbio con gli occhi buoni dell’orso barbuto venuto dal nord a conoscere altri suoni e altre vite.

Maria Teresa mi dà il suo numero. Vieni a trovarmi, mi dice. Abito nelle campagne intorno a Lecce, staremo insieme, pranzeremo e parleremo. So che lo faremo presto e ci accomiatiamo tra gli abbracci, sotto gli occhi benevoli di Gianluca, il figlio di Maria Teresa, di sua moglie, dei nostri amici, che sorridono all’incontro felice.

Eccolo, l’inizio del viaggio. Arriva quando meno te lo aspetti. Inizia e basta.

Dentro una terra, dentro le persone.

Sentieri a Sud. Nomen omen.

 

Vota Antonio! Vota Antonio!

Fondazione Istituto Piemontese Antonio Gramsci

Quest’anno non sono andata a votare. Per due volte. Non è stata una scelta volontaria, ma una casualità dettata da assenze programmate. Nel primo caso, quello del referendum sulla deroga delle concessioni alla trivellazione delle piattaforme, avrei saputo cosa votare, e sarebbe stato sì. Invece al secondo appuntamento elettorale sarei arrivata impreparata. Si dice che l’astensionismo storicamente e statisticamente colpisca il partito al governo, di qualunque segno sia. Forse un po’ è vero. Si tende a vedere la magagna e non quello che è stato fatto, o si è tentato di fare. Il mio imbarazzo derivava dal fatto che il non riconoscermi in un candidato, non riconoscermi pienamente nel suo gruppo dirigente, nei suoi meccanismi ancora troppo legati a un modo nauseante di fare politica ed essere politica, non erano e non sono stati fattori sufficienti per votare i suoi avversari, di cui pochissimo condivido, se non l’idea che l’alternanza è sinonimo di salute.

Mi dispiace, perché invece qualche candidato al consiglio comunale l’avrei votato, eccome. Sarebbe stata una donna, in particolare, sarebbe stata Chiara Foglietta, che continua il percorso intrapreso da Ilda Curti, un’altra donna coraggiosa che stimo e che ha interpretato quello che mi piace pensare debba essere la politica: vicina alle persone, coraggiosa, aperta, pulita, capace di coraggio e di prese di posizione, anche scomode, aperta al dialogo ma ferma sui principi.

Ancora mi sento nel limbo, ora che il ballottaggio si avvicina. Mi turbinano in testa le idee di tutti gli altri, e le mie faticano a trovare spazio.

Così vado a ritroso, a cercare ragioni e motivazioni. Cadeva il settantesimo, qualche giorno fa, del voto alle donne, del voto tra monarchia e repubblica, della Costituente da cui è nata la carta che tutti ci protegge e che molto oggi viene bistrattata.
Intanto provo a ripartire da lì. E già che ci sono, guardatelo anche voi, questo “lì”. Lo trovate in rete, sotto forma di Tour Digitale sulla fondazione della Repubblica, sul sito del Polo del ‘900. E dato che i testi di questo viaggio narrativo li ho scritti io, insieme a quelli sulle conquiste delle donne, sulla lotta di Liberazione e sulle tappe storiche della legislazione sul lavoro, spero che sia di buon auspicio per i tempi che verranno.

TourDigitale_Repubblica

La vita trasuda dalla pelle

foto: Davide Dutto

Non si può descrivere, ha ragione Maurizio.

Non si può descrivere la gioia di chiudersi un incubo dietro alle spalle.

Non si può descrivere la goia di avere di nuovo un cielo sopra le testa, un prato sotto le scarpe, un futuro negli occhi.

Non si può descrivere la paura che sia finto, che non sia vero, che ti stiano prendendo un giro.

Che esci, portandoti dietro due calzini spaiati, che ti vengono le lacrime, che quasi ti vergogni, ad andartene.

E la gioia, la gioia di stare seduto su quella panca che hai immaginato, davanti al laghetto fuori dalle mura. Quel laghetto e quella panca su cui si è seduto tuo fratello gemello quando ti veniva a trovare, quella panca su cui mi sono sdraiata anche io, tante volte, in questi anni, a cercare il sole sulla pelle prima di rientrare, a respirare il Monviso che ci sovrastava. Quel laghetto è un pausa di vita, è una parentesi tra compartimenti stagni, è sole e acqua e legno e odori e insalata che stanno tra una chiave e un domani.

E no, non si può descrivere, ma ci si può provare, a parlare del cuore che balza quando suona il telefono e sai, perché lo sai, lo aspetti, hai aspettato tutta la notte e tutta la mattina questa notizia che ti spaccherà il cuore dalla goia.

Che non è vero che seminare non serve, che la gramigna soffoca le piante deboli. Nel prato c’è spazio, nella terra c’è spazio, basta saper aspettare, basta essere tenaci, caparbi, puliti, folli.

E Maurizio è una pianta che forse rinascerà due volte. Maurizio che oggi mi ha chiamata con le lacrime per dirmi grazie e dirmi tu non sai e dirmi non ci credo e dirmi venite a trovarmi e dirmi voi non potete sapere cosa avete rappresentato per me, per noi, ogni lunedì in questi due anni ad aspettarvi dalla finestra e a salutarvi.

È vero. Forse non lo so, e non lo saprò mai. Ma chi ha varcato quella soglia sa che dietro c’è anche umanità, oltre a tutto il resto. E se ti concentri su quella umanità, se la riconosci, la accogli, se accetti la sfida difficile e tremenda di metterti in discussione, insieme alle tue certezze, forse quel prato, quella terra, quel seme, un po’ di spazio per ricrescere lo troveranno.

Ognuno sceglie come vivere, e non sta a me dire se Maurizio vivrà bene, o vivrà male, questa sua seconda nascita. Mi auguro per lui che possa tornare a sventolare presto la bandiera della sua Samp allo stadio. Perché sono le passioni a tenere vive le persone.

Ma posso dire che la gioia che prova oggi è la stessa che provo io, e anche se non ci riesco provo lo stesso a raccontarla così, perché scrivere è quello che so fare, e se passa qualche emozione, anche solo un piccolo brandello, avrò seminato anche per me.

[foto: Davide Dutto]

Gli archivi e le storie nella storia

 

Archivi digitali 2.0

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Comunicare non fa la differenza. Avere una storia da raccontare sì
L’archivio è un bene culturale da conservare, gestire, comunicare, è memoria e lascito per le generazioni future.
Valorizzare la storia dell’archivio significa infatti custodire in modo “attivo” un bene culturale di rilevanza nazionale, salvaguardandone il valore storico.
Comunicare però non fa la differenza, avere una storia da raccontare sì.
Perché è attraverso il riconoscimento di percorsi collettivi (storici, culturali, artistici), capaci di parlare alle diverse comunità che si possono radicare processi identitari condivisi. Per questo la piattaforma di Archiui sostiene e affianca gli enti, i musei, le istituzioni nel processo di valorizzazione dei propri archivi, aiutandoli a conferire importanza strategica al sapere custodito.

Come?
Attraverso la creazione di percorsi narrativi digitali, tramite cui connettere i documenti conservati in ogni archivio alla storia che li ha generati: una storia fatta di volti, luoghi, snodi epocali in cui a parlare in prima persona sono proprio i materiali catalogati. Fotografie, carteggi, mappe, bozzetti, tessuti, video diventano quindi gli elementi cardine di una trama nuova, digitale e multimediale, tasselli di una storia da narrare.

La piattaforma di Archiui non si ferma qui però. Sulla scia di alcune esperienze virtuose già diffuse, Archiui ha previsto l’implementazione dei Tour digitali creati autonomamente da ogni ente su una piattaforma collettiva: memoriedigitali.it.

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Il riferimento principale è sicuramente quello del modello predisposto da Google con il portale Google Cultural Institute, che raccoglie in un vero e proprio museo virtuale milioni di oggetti digitali provenienti dalle collezioni dei soggetti partner, insieme alla narrazione dell’ente e alle informazioni di collocazione dell’oggetto esplorato. Memorie Digitali risponde di fatto a un bisogno diffuso di promozione e visibilità degli enti coinvolti, offrendo agli archivi una nuova vetrina e agli utenti una possibilità aggiuntiva di fruizione dei patrimoni culturali rappresentati dai documenti.
In concreto, Memorie Digitali aiuta tutti i piccoli soggetti e le medie realtà a trovare una dimensione pubblica e comunicativa su scala più ampia.

Come funzionerà?
Ogni tour digitale realizzato sui rispettivi siti di Archiui potrà essere riversato nel portale memoriedigitali.it.
Gli utenti che vorranno consultare le collezioni riversate, tramite un click, verranno reindirizzati sui siti dei rispettivi archivi, alimentando così traffico per gli enti proprietari delle collezioni.
Ogni immagine, documento, video riversato costituirà un “mattoncino” con cui gli utenti della piattaforma potranno costruire nuovi percorsi di senso, usando i materiali dei diversi archivi che in questo modo concorreranno ad alimentare un patrimonio collettivo. Ogni oggetto porterà con sé la sua descrizione; cliccando sull’immagine, verrà visualizzata la foglia dell’archivio, elemento centrale ai fini della promozione e della conoscenza dell’archivio di appartenenza.

Memorie Digitali permette dunque di:

– esplorare online documenti spesso inediti, ricostruendo percorsi di conoscenza sulla vita degli enti, sugli snodi industriali, sociali e culturali del paese
– fruire una storia fatta di storie, attraverso fotografie, video, documenti
– narrare storie nuove a partire dai materiali raccolti e custoditi, creando collezioni personalizzate.

Memorie Digitali si pone i seguenti obiettivi:

1) valorizzazione delle esperienze dei singoli musei, enti, istituzioni e visibilità presso un pubblico diverso e potenzialmente più ampio degli addetti di settore, investendo nella riconoscibilità del patrimonio del singolo ente
2) valorizzazione dei documenti noti e meno noti e dei percorsi di conoscenza trasversali a diversi archivi, alimentando un processo orizzontale di condivisione del sapere
3) personalizzazione dei percorsi di approfondimento attraverso la costruzione di una “propria” collezione basata sui materiali disponibili, alimentata dalla ricchezza custodita negli archivi digitali.

Memorie Digitali e la formazione
Partecipare al processo di creazione di nuovi percorsi di conoscenza dei patrimoni e della storia sociale e culturale del paese significa anche contribuire alla diffusione della cultura scientifica e digitale nelle scuole e nei processi formativi. La promozione delle eccellenze negli archivi fornirà alle istituzioni scolastiche la possibilità di implementare nuovi strumenti per l’ideazione di progetti ad hoc.

Attraverso il portale, documenti, immagini e collezioni, potranno essere fruiti e rielaborati senza oneri dalla comunità scolastica e opportunamente integrati nell`attività educativa e di insegnamento, attraverso un’esplorazione avanzata e originale.

Il digitale e l’uso delle tecnologie sono intesi dunque come elementi di supporto alla didattica tradizionale. Interrogare gli archivi e le collezioni creerà un dialogo con il visitatore, connettendo il passato con la voce contemporanea e ponendo le basi per un nuovo modello di collaborazione fra scuola, università e lavoro.

Questa è la traccia del mio intervento al convegno “Open (re)source. Archivi digitali 2.0” (Torino, Piccolo Regio, 9 giugno 2016).

McCurry, photoshop e l’India

Magnum Photos, NYC5903, MCS1983002 K201 "Trying to tell India's story in pictures, I spent time in it's stations, watching the swirl of life each time a train pulls in. People endlessly wait, they camp out in the stations, good and services are exchanged. Cha-wallahs ply the carriages with their wares. Cows and monkeys forage for food. The entrance halls reverberate as passengers compete for tickets-the clamor of crowds is a constant assault on the senses. I was working an magazine assignment on a train journey across South Asia and by chance was walking down the track from Agra Fort Station. I was amazed to see the Taj in back of this enormous rail yard so I waited and suddenly they started moving these steam locomotives in front of the Taj. India's stations are a microcosm of the country beyond. Here in the commotion of travel, you can feel the continuity between past and present." "This photograph recorded in 1983 the contrast between a mighty technology - the steam locomotive - and the transcendent aesthetic of the Taj Mahal, with its light-reflecting surface. The steam engine, once an important symbol of indian national culture, is now a thing of the past. So in addition to staging a powerful rhetoric, McCurry's photograph captures a lost moment in culture. Even the tracks near the Taj Mahal have now been removed. The character of McCurry's work, then, lies in the power of its record and its rhetoric. The photograph of engine set against architectural spender holds fast an idea - a way of thinking about contrast and culture that can be carried forward to other images in other times." - Phaidon 55 Bannon, Anthony.(2005).New York: Phaidon Press Inc., 7. National Geographic: Paul Theroux. (June 1984). By rail across the Indian subcontinent, National Geographic (165(6)), 696-743. *See caption in back of book 55, final book_iconic, final print_milan The Imperial Way_book South Southeast_Book Iconic_Book Untold_book

È di questi giorni la polemica (ad esempio qui e qui) di uno scatto di Steve Mc Curry, esposto nella mostra a lui dedicata ed esposta a Venaria.  Uno scatto malamente photoshoppato. È una istantanea di Cuba del 2014 in cui, effettivamente in modo poco professionale, alcuni particolari sono stati modificati senza cura di sistemare il risultato. Il più rumoreggiato tra gli interventi è davvero infelice: un palo che al posto di scomparire, ricompare tra le gambe di un uomo che cammina.

Immagino, e molto ne ho letto, che l’intento fosse proprio eliminare la sovrapposizione tra palo e uomo. Secondo me e secondo molti, lo spostamento, così come gli altri interventi, nulla tolgono e nulla aggiungono all’immagine – a dire il vero ora ne tolgono, ma perché sono fatti male.  Voglio dire, l’immagine resta evocativa, l’istante è calibrato nello stesso modo, l’intervento non ha modificato la “natura” di quello che nella mente e negli occhi McCurry, c’era.

Perché allora ne scrivo?

Perché non mi piacciono le polemiche ma mi piacciono moltissimo le questioni di principio. Perché il tema si presta a una riflessione sull’arte, e sulla visione, e sulla particolarità dello sguardo umano.
Sulla vicenda in sé ho poco da dire: apprezzo Mc Curry e non sono una fotografa,  né un grafico, ma conosco e lavoro con molti fotografi, e molti grafici. E so che photoshop è parte integrante del lavoro degli uni e degli altri. Stop.
Il tema centrale dunque non è se la foto è “naturale”, o “modificata”. Il mio amico Davide Dutto, apprezzato fotografo, non credo abbia mai scattato una foto senza averne fatto una post produzione. Anzi, a volte pure una pre produzione: quando andiamo in giro insieme, anche un solo scatto con il telefonino è pensato “modificato”: con i filtri, con la saturazione, con le ombre. Siamo di fronte al Monviso, ma non lo vediamo nello stesso modo. È meglio il mio, il suo? È meglio quello che vede l’automobilista davanti a noi?

Il punto è che la fotografia ha smesso di essere ripresa fedele della realtà nel momento in cui è diventata arte. E arte significa vedere il mondo filtrato da un’idea, un’emozione, un’anima, tendenzialmente la propria, e quindi personale, e quindi unica, e quindi comunicabile solo in quanto prodotto di un meccanismo irripetibile.
A meno che Mc Curry non dovesse fotografare un’infrazione automobilistica o un furto con scasso, il fatto che ci fosse o meno il palo è irrilevante.
Quello che è rilevante è perché lui abbia scelto di fermare quell’istante, o di costruirlo come un proscenio, per trasmetterci un’emozione, un senso, un’idea.
La sua.

Perché il senso dell’arte è anche di produrre un senso a prescindere dall’intenzione dell’autore. Un senso diverso, altro, proprio di chi guarda. Un’emozione fatta di percorsi di visione ed esperienze di lettura, di mondi e di suggestioni, di vite distinte.
Io vedo e leggo e interpreto e capisco in virtù di quello che sono stata e che sono.

È la ricchezza dell’essere umani, è l’imperfezione dell’essere umani.

Mc Curry scattò la foto che vedete lassù in alto nel 1983. È una foto che io amo molto, perché Steve ha fotografato un istante irripetibile. Perché i binari davanti al Taj Mahal oggi non ci sono più, perché non esistono più quelle locomotive, perché oggi, nello stesso punto, nello stesso scorcio, nessuno potrebbe osservare quella scena. L’India di Mc Curry vive in quello scatto, il nostro ricordo è costruito tramite quello scatto. La storia di un passaggio umano, di un qui ed ora, vive in quella foto.

Quello che importa è la capacità visionaria di chi ha scattato la foto, e il significato che il corso della storia gli ha dato ai nostri occhi.
Il resto è polemica da bar di periferia, è lana caprina un po’ puzzona, e pure un po’ di invidia.

((Nel senso, e qui chiudo, non conta saper riprodurre la Fontana di Duchamp. Conta averlo fatto la prima volta)).