“Mia madre mi portava qui, quando ero piccolo.
Avevo undici anni, venivamo a fare le vacanze al mare.
Mia madre odiava l’acqua, ma amava il mare, il sole, la spiaggia. Affittavamo una casa al fondo della passeggiata, con un grande terrazzino da cui si vedeva la distesa blu, ma solo di sguincio. Ad Alassio, a quei tempi, un po’ come adesso per la verità, non c’erano praticamente accessi per la spiaggia libera. Così, dato che per noi il mare era davvero “mare”, senza altre possibilità o distrazioni, andavamo a piedi fino alla sabbia democratica di Laigueglia. Tre kilometri a piedi all’andata e tre al ritorno, due volte al giorno.
Per me, un mese intero in vacanza era quasi una condizione onirica. Avevo bisogno di pochissime cose. Tre per la verità: una manciata di amici, un pallone per il pomeriggio, una scusa per ritrovarci la sera. Sì perché io volevo tornare da loro, a fine giornata, per scherzare sul giorno che se ne andava. Solo che loro stavano a Laigueglia… e io ad Alassio. Mia madre a dire il vero non mi pose mai limiti, nonostante io fossi poco più che un bambino. Avevo solo un grande divieto: mai oltre le 22.30. In pratica, andavo a trovarli a piedi, li salutavo e tornavo indietro a piedi. In tutto facevo quasi 18 km al giorno. Altro che cammino di Santiago. Il cammino di Giovanni lo dovevano chiamare…
Mia madre mi portava qui quando ero piccolo, e di sera mi portava nella piazzetta.
Diceva che sotto l’insegna colorata di giallo e di verde, come la bandiera del Brasile, sotto l’omino blu vestito di neon, avrei visto come i ricchi mangiavano il gelato”.
“E l’hai visto davvero, papà?”
“Che cosa?”
“Quello che diceva la nonna. Come i ricchi mangiavano il gelato”.
“… Macché. Mi portava nella piazzetta e io mi sforzavo di guardare, di osservare, di capire. Scrutavo tutti i tavolini, le signore che ridevano, gli uomini che parlavano. Guardavo i bambini, guardavo i tavolini e guardavo pure l’omino blu vestito di neon.
Guardavo intensamente.
Ma non vedevo nulla intorno a me se non gelato.”
Mentre mio padre racconta, costeggiamo il molo. Da qui, son certa, veniva a tuffarsi di giorno con gli altri ragazzi. Gare di tuffo proprio, a candela e a cucchiaio. Tecniche provate in lunghe sessioni giornaliere, con punteggi e turni rigorosi. Osserviamo l’acqua dall’alto del pontile. È una sera di quasi pioggia, ma le luci della costa, da lontano, illuminano contorni che potrebbero essere ieri. Non c’è la luna. Piccoli lampioni lungo il bordo della piattaforma illuminano il verde smeraldo sotto di noi. Anche stasera ci sono ragazzi che si tuffano, dentro il buio dell’estate. Mio padre si affaccia sul pontile, scruta la superficie, prende misure mentali, cerca i pescatori. “Eccoli là, ancora là. Una volta li feci infuriare. Venivo a nuoto con le pinne, tutto orgoglioso. E mi impigliai come un pesce tonto nel loro intreccio di fili. Una trama disperata di esche e di lenze, avvolte intorno ai miei piedi. Io li vedevo lassù, sul pontile che agitavano le mani. Pensavo mi salutassero, e rispondevo pure, felice. Le urla, quando mi avvicinai un po’ di più, le urla che mi tirarono…”.
Lasciamo il molo sotto un leggero manto umido di condensa. Una breve folata di vento spezza via per un attimo l’afa quasi agostana. Un manifesto annuncia il prossimo concerto di Toni Dallara, un piano bar suona fuori dalle vetrate un canto melodico e triste. Sembra di vedere un carosello a colori. Un carosello che non risparmia gli ottantenni, imprigionandoli davanti e dietro i microfoni.
La piazzetta ci accoglie affollata. La scritta verde “Balzola – dal 1902” sembra quasi sfrigolare nella calura. I tavolini del caffè all’aperto sono un angolo di estate che invita a chiudere gli occhi, per riaprirli dentro un sogno agghindato come gli anni Sessanta.
“Mi ricordo che c’era un cantante, qui, vicino alla fontana. Era giapponese. E suonava melodie italiane. Noi venivamo qui, la sera, a vedere i ricchi mangiare il gelato e a sentire il giapponese cantare in italiano”.
“E adesso, papà? L’hai capita, finalmente, ‘sta cosa del gelato?”
“Figlia mia, vuoi la verità? Io continuo a vedere solo gelato. Dappertutto.”
“E infatti, mi sembrava. Guarda che ti cola la stracciatella. La commessa era contenta prima. Finalmente hai preso un gusto umano. Limone e cioccolato non si potevano sentire accostati su uno stesso cono, papà”.
Torniamo sui nostri passi, verso mamma che ci aspetta sulla panchina di fronte al mare. Una fiumana di gente ostinata ci investe. Sono un abbraccio sudato e non richiesto, gioioso e annoiato nello stesso tempo. I forzati della vacanza, i prigionieri della felicità a tempo. Tutti gli sguardi guardano verso qualcosa. Tutti cercano qualcosa, o forse sperano solo, disperatamente, di trovarla.
Un cappellino colorato mi attraversa lo sguardo. Sotto c’è un naso, e attaccato a lui un bambino che guarda all’insù, verso l’omino blu vestito di neon che illumina il cielo.
“Dove andiamo, nonna?”
“Se stai bravo ti porto a vedere una cosa speciale”.
“Che cosa, nonna?”
“Andiamo a vedere come i ricchi mangiano il gelato”.