Che anno è, che giorno è … (pandemia, anno due)

Un anno dopo, eccomi al punto di partenza.
Sono sempre a casa.
Il Festival lo stiamo pensando di nuovo in formato ibrido, perché se del doman non c’è certezza, dell’oggi tanto meno.
Qualche volta (poche) vado in ufficio per provare l’ebrezza di vedere delle persone in 3D e capire l’effetto che fa; altre volte (molte) mi spacco gli occhi e la schiena nelle innumerevoli riunioni online sulle centordici piattaforme che hanno preso il posto d’onore nel nostro quotidiano martirio.
In questo anno, nella pausa estiva in cui ci eravamo illusi che tutto sarebbe passato, sono riuscita a spostarmi fuori da Torino solo due volte. Due spazi di libertà conquistata metro per metro, grazie alla generosità di amici fraterni che abitano sul mare, o in mezzo alla natura selvaggia e disordinata, e che mi hanno accolta, ci hanno accolti, in una inedita versione di isolamenti forzati eppure così cari. Perché se cene, concerti, aperitivi non ci sono stati, la gioia di poter stare all’aperto, in mezzo alla natura e non confinati in quattro mura e un tetto spiovente, quella sì, ce l’hanno donata.
A marzo dell’anno scorso non pensavo che lo avrei potuto fare, a marzo di quest’anno mi chiedo se potrò nuovamente farlo.
Nell’anno in mezzo a questi due marzo, sono successe anche delle cose, perché la vita nonostante tutto è andata avanti anche senza che noi potessimo farci granché.
La più bella cosa che mi sia capitata è che tra noi è arrivata Luna, la mia terza bellissima nipote. Nata in piena ondata di pandemia, nata da sola, in un ospedale blindato, nata forte, come solo le guerriere neonate sanno essere. Il suo spirito di adattamento alla vita è stato il regalo e il monito più prezioso. Da 9 mesi sorride alle mascherine e si rabbuia a vedere i volti reali: che si deve aggiungere d’altro?
La più brutta è che sono morte delle persone care, altre sono state ricoverate e salvate per miracolo, altre si sono ammalate.
È capitato anche a me, nonostante le precauzioni e una vita monacale che a confronto quella di Monza, la monaca, fa la vita di Steve Mc Queen.
Nel mezzo, ho imparato tante cose.
A fare la zia a distanza, giocando dallo schermo di un tablet.
A rinunciare ad abbracciare mia madre, mio padre, mia sorella, i miei nipoti, i miei amici.
A mandare giù il sapore aspro dei baci negati.
A tollerare la paura negli occhi dei miei amici più fragili mentre mi avvicinavo per toccarli.
A gestire l’ansia di contagiare, ammalare, far morire, morire, di fare e di non fare, di resistere e di lottare.
Ad adattarmi al lavoro che è cambiato (quando c’è stato), ai diritti negati, agli spazi proibiti, alle giornate recluse, alle assenze, ai divieti, alla rabbia che si rapprende in abitudine.
A non andare al cinema, a non andare a teatro, a non andare a un concerto, a non andare al bar, a non andare al ristorante, a non fare in sintesi tutte quelle cose che la bacheca di Facebook mi ricorda ossessivamente come eventi cardine della mia vita di prima: eventi, cene, spettacoli, progetti, presentazioni, libri, incroci, mondi.
Ho imparato a vivere le cose quando capitano, a pensare di avere un tempo quando mi è stato detto che potevo averlo, a ridurre i programmi, azzerare i sogni, rimandare le speranze, barattando un futuro che già non avevo con un presente che dire precario è un gesto da ottimisti patentati.
In tutto questo resistere, in tutto questo stare a galla, qualche debole segnale ogni tanto è arrivato (i vaccini, i protocolli, le altalene dei colori). Ma la sensazione che sia troppo poco e che avvenga troppo lentamente, è fortissima.
È passato un anno e siamo di nuovo, di fatto, in zona rossa.
Mi ero autoconvinta che avrei saltato il festeggiamento del 44esimo compleanno rinunciando alle file di gatti in fila per tre per dedicarmi con brio al 45esimo. Me lo ero sempre pensato in giro per il mondo, dopo un mare di brindisi con amici e familiari, gente felice che ama stare al mondo e gioire per la vita. Invece quella che sta per arrivare sarà un’altra, maledettissima, primavera, senza nemmeno il conforto delle ugole stonate degli amici.
Non posso fare a meno di pensare che le cose cambieranno, che non potrà piovere per sempre, che la vita riprenderà il suo corso. Ma lo scollamento con la realtà che vivono le persone che governano la mia vita, dicendomi sempre più puntigliosamente come io la debba vivere, mi spaventa e mi opprime.
Spero, mi auguro, mi costringo a pensare, che NON CI ABITUEREMO.
Che manterremo sempre forte il senso della nostra umanità, la scintilla della lotta, la forza per ribellarci se riterremo che la misura sarà troppo colma.
Ho bisogno di crederci, anche se ogni tanto vacillo.
Perché, alla fine, penso che la primavera sia anche un po’ questo.
Il ritorno della speranza, affidata a un fiore che sboccia in un campo dove prima c’era solo silenzio.