Ieri Raneb è andato in gita.
Ad ascoltare la sua storia egiziana c’erano 45 paia di occhi, curiosi e attenti. I proprietari di alcuni di quegli sguardi, i più grandicelli, conoscevano il mistero della piuma, il fascino del viaggio dell’oltremondo, il potere immaginifico dei geroglifici.
Il resto è stato facile: lasciar fluire le parole, aggiustare in presa diretta il racconto, smussare i vocaboli più difficili, inserire una battuta, sottolineare i passi con i piedi, battere le mani, muovere le dita nell’aria insieme ai segni danzanti sulle pareti del tempio. Raccontare cosa sia una storia, tracciarne i contorni, immaginare i tasselli che la compongono per scoprire che non servono regole. Non a 10 anni, non d’estate su un prato all’ombra.
Nessun racconto come questo, tra quelli che ho scritto, si presta ad essere letto e riletto presso un pubblico così esigente e così attento come quello dei bambini. Il timore della chiusa troppo rapida, del senso nascosto dietro poche righe, mi assale sempre prima di ogni inizio. Ma il piacere dei suoni, la ruvidezza dei tessuti, la polvere che si alza, la frescura in gola dei sorsi d’acqua di Raneb, prendono il sopravvento e si prestano a farsi racconto del racconto: come si scrive, perché si scrive.
Esercizio utile all’autore oltre che all’ascoltatore, ancor più che del lettore: sentire in bocca la musica dei suoni, i verbi che si arrotano rotondi, gli articoli che incespicano, gli aggettivi lunghi come i treni delle vacanze che stonano, una volta che la voce li ha animati – e che pure tanto ti piacevano, mentre li leggevi con gli occhi, in silenzio – e ancora il piacere delle domande e la precisione puntuta delle risposte: i sandali, come sono i sandali? Di tela, di cuoio, di paglia? Il muretto è a secco? l’aria è tersa o umida, le stelle brillano o rifulgono, le pareti sono scivolose, ruvide, levigate, calde, fredde, incise e la voce, la voce è potente, il dattero dolce?
Fare un laboratorio di scrittura con dei bambini significa non solo ritornare piccoli, aprire i boccaporti del ricordo e far sgranchire i pensieri al sole del mattino… significa porsi e farsi porre domande a cui non avevi pensato: conosci i luoghi che hai descritto? Inventi sempre le tue storie? Quando capisci che una cosa va raccontata? Vorresti cambiare la tua passione? Hai mai scritto una canzone, vorresti farlo, posso farlo io? Deve essere tutto vero, e cosa è “vero”?
Le due esperienze con i bambini di Atelier Héritage nei loro #pomeriggiletterari in Barriera di Milano e dell’estate ragazzi English Survivor, immerse ciascuna nel proprio contesto urbano, hanno ri-aperto in me cassetti della memoria semichiusi, riportando alla luce le storie scritte all’ombra di altri alberi, in un tempo che si conta sulle dita di due mani in luoghi che non esistono più. Le ricreazioni passate sotto il nocciòlo a intrecciare trame, la paziente azione di ricopiatura (la “bella”, applicata anche al testo della fantasia), la penna a sfera, il regalo.
Insegnare a scrivere storie non è didattica, non è nemmeno scrittura creativa. È un processo condiviso di scoperta, è libertà di immaginazione, è il piacere di mischiare le carte e di creare nuove realtà, è colorare i capelli di un personaggio e inventarsi il suo destino, contro tutte le logiche degli adulti. E’ scrivere con un pennarello con la punta grossa e correggere gli errori con le righe, è rimbalzare i pensieri insieme al pallone nel prato, è esercizio democratico di compromesso e costruzione paziente di un immaginario comune.
Inventare insieme una storia è un atto di fiducia e di scambio, è ridere di una trama inaspettata e di una licenza inattesa. Perché chi se ne importa se nel Cinquecento non c’erano le navicelle spaziali: c’era la fantasia di chi le immaginava; che importa se il “pianeta verde” non è stato ancora scoperto: noi ci arriveremo con un volo di linea partito il 5 ottobre, perché in ottobre succedono le storie di mistero. Che importa se Lady Scarlet ucciderà il comandante con un cocktail su una nave da crociera ma poi la nave affonderà perché il motore brucia… la fantasia non ha limiti, la creazione non ha paletti. Sono solo la logica e le pagine ad avere contorni. Noi abbiamo solo bisogno di altri fogli per scrivere e di un prato per raccontare le nostre avventure. Ricordando agli adulti, come me, che essere liberi si può.
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Raneb che voleva capire. Favola di un Egitto lontano
Quando Raneb appoggiò la mano alla porta, la sua pelle incontrò una superficie ruvida e fredda.
Era una notte tiepida, in lontananza si sentiva solo lo sciabordìo delle acque del Nilo lungo le rive, e il gracchiare delle rane.
Sgattaiolare fuori di casa era stato un gioco da ragazzi. Saltato il muro che cingeva la sua abitazione, Raneb si era inoltrato a grandi balzi lungo il sentiero polveroso che si snodava in discesa, verso il tempio di Osiride. Lungo la via, le torce accese illuminavano la sua ombra di una luce calda e arancione.
Raneb non aveva paura. Non molta, almeno. Le enormi statue di pietra ai bordi della strada gli tenevano compagnia, guidandolo nella notte.
A ogni balzo, i sandali di Raneb sollevavano un po’ di terra, che si raccoglieva in nuvole opache. Il rumore dei passi era interrotto solo dai tonfi sordi del suo cuore. Non aveva paura, ma ogni tanto, per sicurezza, si fermava di scatto e si guardava indietro, come per cogliere di sorpresa un inseguitore nascosto nell’ombra.
Quando il villaggio di Abydos fu del tutto alle sue spalle, Raneb si fermò per riprendere fiato vicino a un comulo di massi, nei pressi di una fonte. Bagnò la mano sotto il getto flebile dell’acqua e si deterse il collo e il viso, per asciugare il sudore. Bevve un piccolo sorso, lasciando scendere la frescura lungo la gola e assaporando il gusto dell’acqua.
L’ingresso del tempio era poco oltre, dietro le dune rocciose che riparavano il luogo sacro dalla vista dei passanti. I sacerdoti del villaggio lo avevano fatto erigere lì, tra la fonte di vita, le acque del Nilo, e la volta celeste, che sovrastava nelle notti di luna nuova, come quella, tutta la pianura. Alzando gli occhi, Raneb poteva vedere un tappeto di stelle luccicanti come il brillìo delle torce sull’acqua, nelle notti di pesca. Il firmamento sembrava un concerto di luce, e questo concerto, stanotte, era tutto per lui.
L’ingresso del tempio era custodito da due sacerdoti. Raneb, che da giorni studiava i loro movimenti, aspettò il momento giusto e poi scattò in avanti, percorrendo di gran corsa la spianata del tempio.
Una volta all’interno si trovò nel buio più totale.
I suoi occhi erano quasi ciechi. Ci volle qualche minuto prima che le pupille si adattessero alla luce fioca, quasi impercettibile, che proveniva da una fessura della volta. Raneb sentiva il suo respiro farsi solido. Le pareti, di pietra grezza, erano bagnate da rivoli di umidità. Anche i piedi di Raneb erano bagnati: l’acqua, nella camera del sarcofago, arrivava quasi a metà del polpaccio.
A tastoni, Raneb girò intorno alle statue che ricoprivano le pareti interne.
Quando gli sembrò di aver trovato quella che cercava, mise la mano destra nella sacca che aveva portato con sé, e ne tirò fuori un po’ di pane e datteri.
Poi avvicinò la mano alla bocca della statua e con cautela infilò il cibo nella fessura.
Prima di riuscire a ripetere il gesto, fu colpito da una luce fortissima. Tutto tremava, la volta di pietra, il terreno allagato dall’acqua, le statue imponenti lungo le pareti.
La sopresa fu tanto grande che Raneb vacillò e ricadde all’indietro, sbattendo forte il sedere sulla pietra. L’acqua che ricopriva il fondo della stanza ora lo bagnava quasi completamente.
“Per Osiride!”, disse ad alta voce, ma poi si zittì, timoroso di farsi scoprire dai sacerdoti.
Mentre cercava di rialzarsi si accorse di non essere più solo.
Di fronte a lui, la statua che poco prima aveva nutrito di pane e datteri si era staccata dal muro e lo guardava interrogativa.
Allora Raneb si fece coraggio, e parlò per primo: “Sono venuto qui perché voglio conoscere la storia del sole e del suo viaggio nel regno degli inferi. Voglio sapere cosa c’é nel mondo dell’aldilà”.
“Perché lo vuoi sapere?” gli domandò la statua.
“Voglio sapere di cosa ha bisogno Amal, che sta affrontando questo viaggio. Non voglio che si senta solo, e che gli manchi qualcosa da mangiare”.
Allora la statua cominciò a raccontare. Impercettibilmente, i segni che erano impressi sulle pareti incominciarono ad animarsi, come in una danza, vorticando in breve tutto intorno.
Così Raneb seppe del sole e del suo viaggio in barca lungo le ore della notte, e della lotta contro l’oscurità, seppe del Faraone e dei pericoli da affrontare per giungere all’oltremondo e imparò l’esistenza delle dodici porte che conducono alle regioni dell’Aldilà, conobbe il timoniere Horo e il dio Anubis e vide la piuma della verità, con cui ogni anima veniva pesata per capire se meritava la vita eterna.
Nella mente di Raneb le immagini componevano un unico grande quadro animato. Dalle pareti, i disegni avevano riempito l’aria e i loro profili si erano intrecciati ai suoi pensieri, trasformandosi in ricordi danzanti.
Rapito dal racconto, Raneb non si accorse di essere tornato nel buio più totale.
Per nulla spaventato, si guardò intorno. Tutto era tornato come prima, immobile.
“Ho sognato?” Si chiese.
Mentre si interrogava pensoso sul suo sogno a occhi aperti, sentì i passi dei sacerdoti avvicinarsi. Si mosse rapidamente e sgusciò fuori prima che le voci riempissero la stanza.
Fuori dal tempio, percorse a ritroso la strada verso casa. Prima di scavalcare il muro per la seconda volta, sentì un languore nella pancia. La corsa, l’adrenalina la scoperta, le statue danzanti avevano risvegliato una gran fame.
Mise una mano nella sacca per tirare fuori il pane e i datteri. Le sue dita perlustrarono a lungo la stoffa ruvida. Non c’erano dubbi: la sacca era vuota.
Il cuore di Raneb allora sorrise, e le sue labbra regalarono alla Luna la sua gioia.