My quarantine

Il cielo.
Essenzialmente il cielo.
La fame d’aria fa boccheggiare. L’ansia prende alla gola, l’occhio insegue parole sullo schermo, il dito compulsa i tasti di aggiornamento.
Tornare a respirare, fuori. Sgonfiare il cuore dal senso di pressione, volgere, s-volgere, districare lo sguardo verso un orizzonte verticale, in alto, all’aperto.
Il confine del monitor è un’abitudine a cui aggrapparsi, inizialmente rifugio, poi prigione certa.
Il baratro si apre su un tempo che diventa senza misure, dilatato e dilaniante.
Lo colmano poche azioni e molte domande: domani, lavoro, senso, paura. Di ammalarsi, di morire. Da fuori arriva la rabbia, per chi non sta alle regole, per chi ci sta troppo. Un coacervo di sentimenti indistinti, vecchi e nuovi.

E il tempo.
Da riempire improvvisamente di niente. La creatività chiama serenità, come l’amore. Non si ama a comando, né si crea. Per questo non scrivo, né leggo. Un buco dentro l’anima e la testa.
Far scorrere le ore cercando le emozioni. Dare una casa ai sentimenti nuovi: angoscia, timore, precarietà, inutilità.

Le parole, unico conforto.
Con gli amici, con gli affetti. A mischiare la rabbia dei progetti infranti, degli abbracci che mancano. Il cuore che si stringe pensando al profumo della pelle delle madri lontane, padri che non possono abbracciare, dei bambini che non possiamo stringere. Il mondo che ha reso globale le relazioni, costruendo una casa unica a portata d’aereo, ora nega i legami. Amici e sogni in tanti altrove, prima possibilità, ora ostacoli.

E l’ansia che arriva.
Non poter viaggiare, perdere ciò che riempie il mio essere. Ansia che spunta le mie armi, viaggio e scrittura, kilometri e parole, strategie per colorare la vita, da custodire dentro, come tesoro inespugnabile e segreto.
Con il blocco il respiro diventa affanno, la pressione un’altalena senza regia.
È il corpo che manda segnali. È la mente che non processa più la realtà. Senza il controllo serve una nuova attenzione, un progetto di ripartenza. Ma non è il momento, non subito.

La lusinga della cucina coccola i domani che si inanellano.
Pomeriggi di caffe vietnamita, riti solitari fatti delle torte che non ho mai fatto. Le mele, le mele danno sicurezza al mattino. E poi la pizza, rifugio nella tradizione e nei carboidrati, nell’energia che non serve: inseguire il lievito, opporre mattarelli, conquistare spianate, rimpiangere il licoli. Cioccolato, vino. Consolazione per le queste ore strane. Una serie tv, una sola a scandire le ore, rubando i pensieri. E poi cose che non pensavo possibili: scalare la noia di una montagna di abiti da stirare, lustrare il frigo, inseguire le fughe delle piastrelle, spiare l’interno dei mobili.

E la musica.
È il cortile. Usando una scala secondaria, si arriva su un pianerottolo con un balconcino. Illuminazione.
Mi accontento di un metro quadro di respiro, che mi regala il colore del cielo.
Elena suona e mi sembra che il cuore rinasca. Dieci minuti al giorno, un regalo per l’anima e capisco che li dovrò difendere. Sono un’isola di socialità, una parentesi di umanità, un modo per condividere con altri umani questo passaggio.

In faccia arriva l’aria, nelle orecchie il vociare degli uccelli. Sulla pelle la pioggia, quando finalmente scende copiosa, dopo il freddo pungente.

Mi accorgo degli altri.
Altri affacciati, che non ho mai conosciuto. Finestre che si aprono su un cortile nuovo, sgombro di auto, con cerotti di parole crociate che intervallano l’asfalto. Piante, volti, voci. Affiorano, giorno per giorno.

Quello di Elena è un messaggio, diventa un appuntamento.
Lo difendiamo, perché ne abbiamo bisogno tutti.
Qualcuno scende. Le mansarde non hanno aria. Un’ora o poco meno, lo spazio di un saluto distante. Metri di sicurezza, bottiglie di vetro, bicchieri in tasca.
Facce che sono nomi che sono nuovi amici. Ogni tanto il dubbio, sempre la condivisione: infrangiamo piccole regole per sopravvivere, reagiamo a nostro modo alla vita che si è interrotta. Le domande aiutano a formulare risposte che servono al nostro quotidiano.

Sentiamo sulla pelle le tentazioni della clausura. La voglia di uscire sostituita dalla paura di farlo. Ci arrediamo il tunnel, noi umani, siamo fatti così. Abitudinari e capaci di adattamento, una brutta bestia. Resistiamo, ma è dura sconfiggere il senso del dovere collettivo.

Alzare calici e pensieri è un rito che diventa parte delle nostre ore. Lo aspetto, lo aspettiamo. Quasi a scusarci se ogni tanto il lavoro si sovrappone. Quasi a considerare che non è più così importante, quando tutto ha smesso di esserlo. Odiare le video chiamate, odiare chi finge che tutto sia come prima, chi sfrutta il lavoro che non c’è, chi pensa che sia opportuno, ancor prima che opportunità. Pensare a una vita diversa e al timore che tutto sarà eguale.

Respirare, ogni sera, guardando il cielo. Piano piano arrivano le rondini, è un vorticare intorno alle nuvole. La luna ritaglia lo spazio del quadrato di cielo che abbiamo; gli alberi non a tutti sono concessi, per le geometrie obbligate.
Godiamo del silenzio e del tepore, di questa estate prima del tempo, agosto metropolitano fuori stagione.

Sentire la natura, accorgersi dei particolari.
Scendere e progettare il futuro.
Capire che il dopo potrà esserci se lo vorremo, e potrà essere assieme. Mettendo assieme i pezzi conquistati, raccogliendo i frutti. Canteremo, mangeremo, suoneremo, ci ubriacheremo assieme.
Lo faremo qui, dove ora ci è dato rifugio, dove ce lo siamo preso.

Bere assieme nel sole di Pasqua è una gioia genuina che non ti aspetti.
Ridere senza sentirsi in colpa. Sorridersi. Un po’ discosti, che non c’è nulla di male, ma non si sa mai, divisi tra dovere e responsabilità.
Eppure resilienti, ci ritagliamo una pizzata in una sera speciale, quella del 25 aprile. Festeggiamo la liberazione, dopo Bella Ciao con le mascherine cantiamo il nostro primo maggio lontano dalle piazze, per alcuni il primo combattente.
Le liste dei morti sul lavoro, e il senso di questo tempo, per noi.

Il dissidio arriva puntuale, come in ogni organizzazione sociale.
La rabbia per chi non capisce e non ci vuole, ottusità, egoismo. Tornano le ansie, e i dubbi, il pensiero delle libertà di tutti.
Troviamo la via e la via è un lento ritorno alla normalità. Quello che speriamo accada.

Respirare intanto. Camminare. Ora anche fuori, intorno, lontano. Si può. Ma respirare dal cortile, anzi dal balcone, ormai ha un altro gusto.
E avrà sempre il sapore della libertà e della vita ritrovata, quando era più difficile trovarla.

 

 

Resistenza

Il mio amico e giornalista Antonio Cipriani mi ha fatto un regalo e ha scritto un pezzo bellissimo su remocontro.it, dedicato alla resistenza, alla rassegnazione e al prezzo della libertà.
L’articolo si apre con una citazione, che è l’incipit del mio libro “Claroquesí. Cartoline dalla rivoluzione” (lo potete comprare qui).

Leggetelo, perché fa bene al cuore.

 

#Metoo

Facevo quinta liceo.
Non so perché quel giorno decisi di andare a scuola con il tailleur, io che portavo i pantaloni praticamente dal primo anno di asilo.
Ma era verde acido, era fatto su misura, ed era bellissimo.
Quel giorno c’erano due ore di disegno tecnico. Compito in classe, assonometrie, chine, ecoline, lametta per cancellare righe altrimenti indelebili.
La faccio breve: per contrastare la poca comodità della gonna a tubino mi sedetti in punta di sedia, così da governare bene squadrette e compassi.
Il prof si avvicinò, scambiammo battute che non ricordo, poi – senza che potessi immaginarlo, pensarlo, perfino temerlo – si sedette a cavalcioni sulla mia stessa sedia, tra lo schienale e la mia schiena. Appiccicato al mio corpo. Diventai di ghiaccio. Provai un misto di imbarazzo e colpa, rabbia e timore. Lui, schiacciato su di me, si godette la mia totale incapacità di reagire e poi, dopo avermi soffiato sotto la nuca, mi sussurrò nell’orecchio: “E adesso protesta pure”.

Non capitò altro, ma ancora mi indigno con me stessa per quel gelo nelle vene che mi spense in gola la protesta.

#MeToo.
#QuellaVoltaChe

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Questo breve post è comparso sulla mia pagina facebook il 16 ottobre 2017.  per cui due giorni dopo è comparso un altro post, questo.

 

La vicenda che ho narrato brevemente è ovviamente più complessa di quanto fb permetta, ma io me ne infischio degli algoritmi e delle norme di social editing, e provo a riprenderla per piani differenti. Perché da quello scritto sono nate parole, mail, telefonate e mi sembra giusto restituire la ricchezza di questi scambi.

Il motivo per cui ho raccontato quell’episodio lontano si collega sicuramente al momento attuale: le vicende e gli scandali emersi intorno al grande produttore Hollywodiano, che ha mietuto vittime sessuali peggio che la peste e in particolare le reazioni suscitate nel nostro paese sessuofobo intorno alle parole di tutte quelle donne che, a distanza di tempo, si sono sentite di raccontare di episodi e abusi  sepolti nel loro passato, in segno di solidarietà, di denuncia, di testimonianza.
Non che mi interessi nello specifico delle attrici americane, o di Asia Argento, o del produttore in sé. Ma l’episodio si porta dietro tante di quelle implicazioni e di piani di pensiero che mi sono sentita di intervenire.
L’ho fatto raccontando un episodio per me superato, lontano nel tempo, forse ancora un po’ urticante nel ricordo, ma nulla di più.
Non lo dico per ridimensionarlo, ma per circoscriverlo in un percorso per fortuna più ampio e sano di vita successiva.
Quello che mi interessava raccontare, citando quell’episodio spiacevole, era soprattutto la possibilità di evidenziare tre cose:
– che si può scegliere di raccontare a distanza di anni un evento, avendo il diritto di farlo come di non farlo, di farlo dopo o di farlo prima, di tacere o di condividere, senza per questo dover essere giudicati (e qui, non so se sono riuscita subito nell’intento, ma è servito per dei chiarimenti successivi, e quindi bene così);
– che anche persone strutturate e capaci di introspezione, analisi, reazione, possono vivere o subire esperienze improvvise e scioccanti, in grado di alterare o minare aspetti della propria personalità e che sono quasi sempre inevitabilmente legati alla sfera intima, personale o sessuale, e che quasi sempre – ma non sempre, va detto – sono donne;
– che lo stigma va gettato sullo sconfinamento di ruolo, sulla disparità di potere tra le parti in atto, tra l’asimmetria di relazione e di strumenti. Dovuta a mille fattori e circostanze: l’età, la professione, la condizione economica ecc. ecc. ecc.
Faccio una breve parentesi sul personaggio in sé, di cui poco mi importa in senso stretto. L’ho sempre ritenuto un poverino, affamato di un sesso insano e pruriginoso, incapace di godere se non dal buco della serratura di sguardi/gesti/attenzioni non richieste.
Un “uomo” che provava piacere a propinare imbarazzo, forte del ruolo giocato dietro il sottile velo del sottinteso, del fraintendimento, della provocazione, pronto sempre a ritrattarla, nasconderla, mascherarla.
Se quel giorno o qualunque altro giorno mi avesse fatto un’avance, io avrei saputo come reagire. Se la dinamica della relazione si fosse giocata solo sull’asse maschio/femmina, uomo/donna, sulla seduzione o sulla provocazione sessuale, avrei avuto gli strumenti per reagire.
Invece lui quel giorno scelse un altro piano,quello del potere e della disparità di ruolo dettato dal suo essere docente: sconfinò in un campo sessuale da una posizione asimmetrica, esercitando una violenza psicologica sottile, a cui difficilmente si riesce a reagire. Perché non ce lo si aspetta, perché si è impreparati, perché si è piccoli.
E questa condizione di piccolezza, di “non adultità” rispetto alla dinamica relazionale, si replica nella vita ogni volta che l’uomo (o l’essere umano esercitante un potere) che si ha davanti sceglie di usarlo su di te in modo improprio. Succede ai bambini/alle bambine con i preti negli oratori, succede a scuola o all’università con insegnanti e docenti, succede negli ospedali con i medici, succede nel posto di lavoro con il capo/a. Che ci siano partite di scambio o meno, che ci sia in gioco un tornaconto o meno.
Nel mio caso, la rabbia furibonda che questo episodio ha generato nel tempo investe un altro aspetto, molto privato e personale: quel docente in quel gesto offese la mia femminilità nascente, sporcando il moto spontaneo di una persona come me per cui la testa veniva prima del corpo, la persona prima del sesso che esprimevo. Lui riconobbe la femminilità in quella mattina e la trattò nell’unico modo in cui riusciva a gestirla: ricacciandomi in un ruolo non di donna a cui fare un complimento ma una preda da schiacciare, esercitando un potere sbilanciato.
Questo mi turbò e mi offese. Aspettò, nemmeno consapevolmente, credo, che io fossi in una condizione di leggerezza, di minore difesa, per approfittare del suo ruolo, sconfinandolo.
La mia reazione, uguale a quella di altri momenti di imbarazzo simile a questo, fu di fare finta di nulla. Scelsi di non dare importanza, a lui e a quello che stava facendo, lo ignorai, pensando costruttivamente che non dargli soddisfazione mostrando il mio sconcerto fosse un modo per tenergli testa. Non era così, ma l’ho appreso con il tempo, diventando donna, cosa che all’epoca non ero.
Perché non ne ho parlato? Non lo so.
Forse in quel momento non ne colsi appieno le conseguenze. Forse perché tutti sapevano come era fatto quel docente, e nessuno nei fatti aveva fatto granché per sanzionare i suoi comportamenti, se non riderne. Lo si trattava come un personaggio buffo, innocuo, un po’ maniaco.
Forse non lo feci perché in quel momento avevo altri pensieri per la testa, altre situazioni da sciogliere legate alla mia vita da adolescente tutta testa, con dieci in quasi tutte le materie ma poca esperienza dei fatti della vita, conseguenza seccante della mia età anagrafica. In altre parole, ero intelligente, spaccavo i marroni sulle questioni di principio e di lana caprina ma ero sempre e comunque una ragazzina.
Diciamo che quell’episodio non aiutò a corroborare una bella immagine degli uomini, in particolare quelli adulti, che – forse in virtù della mia maturità intellettuale – tendevo comunque ad attrarre. Per fortuna, nel mio caso mai ci fu violenza, coercizione fisica, abuso, ma ho sempre ritenuto, e ritengo ancora oggi, che lo sconfinamento di campo e di ruolo sia altrettanto pregna di gravità.
Perché l’equazione mentale di quella “me” adolescente, allora, fu più o meno “è colpa mia. Sono io che seduco/attraggo/accetto persone che sconfinano i ruoli che rivestono, perché ne so cogliere l’umanità”. E sti cazzi, ora lo so che non è così, che le relazioni non sono così, che i rapporti tra i sessi non sono così, o che non lo sono necessariamente, o che almeno vanno scelti, scientemente, così – e non solo subiti. E non importa, che ci sia un tornaconto, non importa che non ci sia. Lo squilibrio delle parti fa saltare ogni altro “se” e ogni altro “ma”. Punto.
Ecco, questo c’era dietro quel breve racconto.
Perché non l’ho detto prima, perché non l’ho detto in quel momento?
Perché non ne ero in grado. Non ne ero capace, perché avrei dovuto smuovere temi immensi che la mia età acerba non era in grado di gestire, e che la mia superbia intellettuale non poteva tollerare.  Così scelsi di ignorarlo. Forse sbagliai (per il caso in sé, sicuramente, per la mia tenuta mentale, allora, forse fu meglio così), ma tant’è.
E oggi, sono felice di parlarne, perché scrivere serve, leggere serve, ricucire serve. E importa poco, davvero poco, se uno sceglie di farlo presto o tardi, e del perché.