Chi se ne va che male fa

La notizia è arrivata così.
In una mattina serena, mentre prendevo l’aereo che mi avrebbe riportato a casa dopo una manciata di giorni salentini.
Se dovessi descrivere quante emozioni ho provato in quel momento, sarei oggettivamente in difficoltà.
Un po’ per la casualità della scoperta, affidata a una confidenza nata tra quelle mura e che ha portato alla rivelazione della morte di Federica, che altrimenti forse mai avremmo saputo.
Un po’ per la sorpresa, quella di ricevere notizie di un mondo che ho attraversato per poco tempo, con tanti dubbi e molta umanità.
Un po’ per la distanza che sembra oggi siderale, da quelle vite così eguali alla mia eppure così diverse.
Oggi penso solo pensieri sconnessi.
In qualche modo, quando si affrontano percorsi come questo – laboratori o esperienze formative in contesti reclusi – è difficile resistere alla tentazione di sentirsi “i buoni”. Forse è inevitabile, altrimenti il gioco delle parti sociali non sarebbe possibile, e nemmeno la sua rappresentazione fatta di inclusione/esclusione, legittimo/illegittimo, buono/cattivo, che il carcere rappresenta in modo così paradigmatico. Un gioco, per noi operatori sociali, per certi versi ancora più stridente, dato che l’oggetto dei nostri incontri nel carcere di Torino era proprio il pregiudizio dello sguardo, la superbia che inquadra e definisce i destini delle persone in base all’apparenza, il “chi è chi” deciso dalla superficie dell’abitudine e, per converso, tutto il lavoro contrario che abbiamo provato a fare con le ragazze detenute, un lavoro di approfondimento dello sguardo, della conoscenza reciproca, della comprensione dei meccanismi umani che ci portano a definirci diversi o uguali, che ci portano a provare paura o solidarietà, rabbia o inclusione.
Non è stato un percorso facile: non lo è mai, ma in questo caso è stato complicato dall’appartenenza di genere, dallo specchio feroce che i nostri incontri rappresentavano per ciascuna di noi, recluse e libere.
Ci abbiamo provato; per poco tempo, per il giusto tempo, questo non potremo saperlo mai: tra quelle mura si fanno i conti con la disponibilità (nostra, nell’andare, loro, nel mostrarsi), la vita che continua (fuori per noi, dentro, per molte tra loro), la convenienza (nostra, nel proporci e nel proporre, loro, nell’aderire), il senso del futuro, la difficoltà a interrompere la routine, che banalmente esiste in qualunque contesto, anche quello meno scontato.

Non mi sento peggiore, non mi sento migliore, dopo questa esperienza. E non mi sento colpevole di non aver fatto abbastanza, e non mi sento felice di aver fatto quel che ho potuto.
Le vite, le nostre, tutte, sono più complicate dell’attimo in cui ci si incontra, e dei motivi per cui si sceglie di stare, o di andare.

Federica se ne è andata per un’overdose, e a me, a noi, oggi restano solo tante domande, insieme a un senso di stanchezza e di scacco – ingiustificato ma, umanamente, inevitabile – che riporta il pensiero a quanto sia davvero una soluzione, il carcere, o quanto invece sia un modo per rinchiudere tutti quei problemi che, come società, non sappiamo risolvere.
Ciao Federica, buon viaggio.