McCurry, photoshop e l’India

Magnum Photos, NYC5903, MCS1983002 K201 "Trying to tell India's story in pictures, I spent time in it's stations, watching the swirl of life each time a train pulls in. People endlessly wait, they camp out in the stations, good and services are exchanged. Cha-wallahs ply the carriages with their wares. Cows and monkeys forage for food. The entrance halls reverberate as passengers compete for tickets-the clamor of crowds is a constant assault on the senses. I was working an magazine assignment on a train journey across South Asia and by chance was walking down the track from Agra Fort Station. I was amazed to see the Taj in back of this enormous rail yard so I waited and suddenly they started moving these steam locomotives in front of the Taj. India's stations are a microcosm of the country beyond. Here in the commotion of travel, you can feel the continuity between past and present." "This photograph recorded in 1983 the contrast between a mighty technology - the steam locomotive - and the transcendent aesthetic of the Taj Mahal, with its light-reflecting surface. The steam engine, once an important symbol of indian national culture, is now a thing of the past. So in addition to staging a powerful rhetoric, McCurry's photograph captures a lost moment in culture. Even the tracks near the Taj Mahal have now been removed. The character of McCurry's work, then, lies in the power of its record and its rhetoric. The photograph of engine set against architectural spender holds fast an idea - a way of thinking about contrast and culture that can be carried forward to other images in other times." - Phaidon 55 Bannon, Anthony.(2005).New York: Phaidon Press Inc., 7. National Geographic: Paul Theroux. (June 1984). By rail across the Indian subcontinent, National Geographic (165(6)), 696-743. *See caption in back of book 55, final book_iconic, final print_milan The Imperial Way_book South Southeast_Book Iconic_Book Untold_book

È di questi giorni la polemica (ad esempio qui e qui) di uno scatto di Steve Mc Curry, esposto nella mostra a lui dedicata ed esposta a Venaria.  Uno scatto malamente photoshoppato. È una istantanea di Cuba del 2014 in cui, effettivamente in modo poco professionale, alcuni particolari sono stati modificati senza cura di sistemare il risultato. Il più rumoreggiato tra gli interventi è davvero infelice: un palo che al posto di scomparire, ricompare tra le gambe di un uomo che cammina.

Immagino, e molto ne ho letto, che l’intento fosse proprio eliminare la sovrapposizione tra palo e uomo. Secondo me e secondo molti, lo spostamento, così come gli altri interventi, nulla tolgono e nulla aggiungono all’immagine – a dire il vero ora ne tolgono, ma perché sono fatti male.  Voglio dire, l’immagine resta evocativa, l’istante è calibrato nello stesso modo, l’intervento non ha modificato la “natura” di quello che nella mente e negli occhi McCurry, c’era.

Perché allora ne scrivo?

Perché non mi piacciono le polemiche ma mi piacciono moltissimo le questioni di principio. Perché il tema si presta a una riflessione sull’arte, e sulla visione, e sulla particolarità dello sguardo umano.
Sulla vicenda in sé ho poco da dire: apprezzo Mc Curry e non sono una fotografa,  né un grafico, ma conosco e lavoro con molti fotografi, e molti grafici. E so che photoshop è parte integrante del lavoro degli uni e degli altri. Stop.
Il tema centrale dunque non è se la foto è “naturale”, o “modificata”. Il mio amico Davide Dutto, apprezzato fotografo, non credo abbia mai scattato una foto senza averne fatto una post produzione. Anzi, a volte pure una pre produzione: quando andiamo in giro insieme, anche un solo scatto con il telefonino è pensato “modificato”: con i filtri, con la saturazione, con le ombre. Siamo di fronte al Monviso, ma non lo vediamo nello stesso modo. È meglio il mio, il suo? È meglio quello che vede l’automobilista davanti a noi?

Il punto è che la fotografia ha smesso di essere ripresa fedele della realtà nel momento in cui è diventata arte. E arte significa vedere il mondo filtrato da un’idea, un’emozione, un’anima, tendenzialmente la propria, e quindi personale, e quindi unica, e quindi comunicabile solo in quanto prodotto di un meccanismo irripetibile.
A meno che Mc Curry non dovesse fotografare un’infrazione automobilistica o un furto con scasso, il fatto che ci fosse o meno il palo è irrilevante.
Quello che è rilevante è perché lui abbia scelto di fermare quell’istante, o di costruirlo come un proscenio, per trasmetterci un’emozione, un senso, un’idea.
La sua.

Perché il senso dell’arte è anche di produrre un senso a prescindere dall’intenzione dell’autore. Un senso diverso, altro, proprio di chi guarda. Un’emozione fatta di percorsi di visione ed esperienze di lettura, di mondi e di suggestioni, di vite distinte.
Io vedo e leggo e interpreto e capisco in virtù di quello che sono stata e che sono.

È la ricchezza dell’essere umani, è l’imperfezione dell’essere umani.

Mc Curry scattò la foto che vedete lassù in alto nel 1983. È una foto che io amo molto, perché Steve ha fotografato un istante irripetibile. Perché i binari davanti al Taj Mahal oggi non ci sono più, perché non esistono più quelle locomotive, perché oggi, nello stesso punto, nello stesso scorcio, nessuno potrebbe osservare quella scena. L’India di Mc Curry vive in quello scatto, il nostro ricordo è costruito tramite quello scatto. La storia di un passaggio umano, di un qui ed ora, vive in quella foto.

Quello che importa è la capacità visionaria di chi ha scattato la foto, e il significato che il corso della storia gli ha dato ai nostri occhi.
Il resto è polemica da bar di periferia, è lana caprina un po’ puzzona, e pure un po’ di invidia.

((Nel senso, e qui chiudo, non conta saper riprodurre la Fontana di Duchamp. Conta averlo fatto la prima volta)).