È di questi giorni la polemica (ad esempio qui e qui) di uno scatto di Steve Mc Curry, esposto nella mostra a lui dedicata ed esposta a Venaria. Uno scatto malamente photoshoppato. È una istantanea di Cuba del 2014 in cui, effettivamente in modo poco professionale, alcuni particolari sono stati modificati senza cura di sistemare il risultato. Il più rumoreggiato tra gli interventi è davvero infelice: un palo che al posto di scomparire, ricompare tra le gambe di un uomo che cammina.
Immagino, e molto ne ho letto, che l’intento fosse proprio eliminare la sovrapposizione tra palo e uomo. Secondo me e secondo molti, lo spostamento, così come gli altri interventi, nulla tolgono e nulla aggiungono all’immagine – a dire il vero ora ne tolgono, ma perché sono fatti male. Voglio dire, l’immagine resta evocativa, l’istante è calibrato nello stesso modo, l’intervento non ha modificato la “natura” di quello che nella mente e negli occhi McCurry, c’era.
Perché allora ne scrivo?
Perché non mi piacciono le polemiche ma mi piacciono moltissimo le questioni di principio. Perché il tema si presta a una riflessione sull’arte, e sulla visione, e sulla particolarità dello sguardo umano.
Sulla vicenda in sé ho poco da dire: apprezzo Mc Curry e non sono una fotografa, né un grafico, ma conosco e lavoro con molti fotografi, e molti grafici. E so che photoshop è parte integrante del lavoro degli uni e degli altri. Stop.
Il tema centrale dunque non è se la foto è “naturale”, o “modificata”. Il mio amico Davide Dutto, apprezzato fotografo, non credo abbia mai scattato una foto senza averne fatto una post produzione. Anzi, a volte pure una pre produzione: quando andiamo in giro insieme, anche un solo scatto con il telefonino è pensato “modificato”: con i filtri, con la saturazione, con le ombre. Siamo di fronte al Monviso, ma non lo vediamo nello stesso modo. È meglio il mio, il suo? È meglio quello che vede l’automobilista davanti a noi?
Il punto è che la fotografia ha smesso di essere ripresa fedele della realtà nel momento in cui è diventata arte. E arte significa vedere il mondo filtrato da un’idea, un’emozione, un’anima, tendenzialmente la propria, e quindi personale, e quindi unica, e quindi comunicabile solo in quanto prodotto di un meccanismo irripetibile.
A meno che Mc Curry non dovesse fotografare un’infrazione automobilistica o un furto con scasso, il fatto che ci fosse o meno il palo è irrilevante.
Quello che è rilevante è perché lui abbia scelto di fermare quell’istante, o di costruirlo come un proscenio, per trasmetterci un’emozione, un senso, un’idea.
La sua.
Perché il senso dell’arte è anche di produrre un senso a prescindere dall’intenzione dell’autore. Un senso diverso, altro, proprio di chi guarda. Un’emozione fatta di percorsi di visione ed esperienze di lettura, di mondi e di suggestioni, di vite distinte.
Io vedo e leggo e interpreto e capisco in virtù di quello che sono stata e che sono.
È la ricchezza dell’essere umani, è l’imperfezione dell’essere umani.
Mc Curry scattò la foto che vedete lassù in alto nel 1983. È una foto che io amo molto, perché Steve ha fotografato un istante irripetibile. Perché i binari davanti al Taj Mahal oggi non ci sono più, perché non esistono più quelle locomotive, perché oggi, nello stesso punto, nello stesso scorcio, nessuno potrebbe osservare quella scena. L’India di Mc Curry vive in quello scatto, il nostro ricordo è costruito tramite quello scatto. La storia di un passaggio umano, di un qui ed ora, vive in quella foto.
Quello che importa è la capacità visionaria di chi ha scattato la foto, e il significato che il corso della storia gli ha dato ai nostri occhi.
Il resto è polemica da bar di periferia, è lana caprina un po’ puzzona, e pure un po’ di invidia.
((Nel senso, e qui chiudo, non conta saper riprodurre la Fontana di Duchamp. Conta averlo fatto la prima volta)).