Sono a casa.
Sono a casa perché ho dovuto rimandare il Festival.
Perché giustamente l’azienda con cui lavoro prende delle precauzioni per la nostra sicurezza.
Perché l’associazione con cui collaboro lavora nell’ambito della formazione e quindi va di pari passo con i ritmi delle scuole, cioè chiude.
Sono a casa perché non sto nemmeno così bene, e quindi è meglio così. Per me, per i miei amici, i miei genitori, i miei colleghi.
Sto a casa e cerco di non farmi venire la depressione, lavoro, penso, scrivo, leggo, progetto i viaggi che un giorno farò.
Mi pesa non poter vedere i miei amici, non poter andare al parco con mia nipote, non andare a bere un bicchiere, non andare al cinema. Mi pesa questo “non” che aleggia sulla mia vita.
Se penso che davanti ho un periodo molto lungo, mi chiedo quanto tempo resisterò prima di diventare la Sue Ellen di via San Domenico, oltre che una casalinga fissata con le piastrelle.
Capisco che si debba fare così. E che a noi, se non ci impongono le cose, proprio non ce la facciamo a farle. Siamo un po’ anarchici e un po’ cazzoni, ci piace crogiolarci nell’idea che siam figli di guappi e guasconi, che siamo furbi, che gli altri sono stupidi, o quantomeno noiosi.
A noi la democrazia ci schifa proprio, perché la usiamo per protestare per le cazzate, e sulle cose importanti sentiamo le catene fake che corrono dentro i nostri gruppi whatsapp. Abbiamo paura di tutto ma non facciamo niente. Tutto è un nostro diritto e niente fa parte dei doveri, perché l’altro, quello a cui lo devo, è sempre troppo lontano, troppo distante. Mi opprime, mi soffoca, mi richiama all’ordine, spesso morale e, ogni tanto, come adesso, anche fisico.
Sto a casa e come tanti autonomi non so se, come e quanto potrò lavorare in futuro, un futuro dopo questo presente così incerto, ché i nostri sono mestieri evanescenti: la cultura, la formazione, l’arte… Quasi un lusso per poter essere considerati davvero un investimento produttivo capace di attrarre risorse reali – e tutele.
Sto a casa e rispetto il dolore di chi ha dovuto chiudere la propria attività, o ne ha visto limitare la portata. Tutti dobbiamo lavorare, i sacrifici sono durissimi. E quindi li capisco. Ma non ho bisogno di essere albergatore, cuoco, barista, attore, regista, grafico, maestra o infermiere, per farlo. L’empatia non ha confini così ristretti da includere solo il mio “simile”.
Quello che proprio non capisco è quelli che se ne fottono proprio.
Che pensano che io, l’albergatore, il cuoco, il barista, l’attore, il regista, il grafico, la maestra e l’infermiere siamo tutti imbecilli: oggi c’è il sole, che sarà mai se mi faccio due ore al bar seduto al tavolino con gli amici a ridere e scherzare.
Perché, secondo loro, a me non piacerebbe?
Perché secondo loro non mi verrà lo sclero a breve, per questa reclusione?
Perché secondo loro le madri o i padri o i nonni a casa da quasi tre settimane non vorrebbero uscire a ubriacarsi con i loro coetanei?
Ora, non ve lo chiedo per me, che tanto lo so che una foglia che cade non fa notizia eccetera eccetera o comunque ne fa poca.
Fatelo per chi come qualche mio amico ha un padre in ospedale adesso, ha un figlio che incrocia i pronto soccorso o ha un amico, un’amica, che lavora in corsia.
E se proprio non riuscite a farlo per gli altri, perché siete troppo egoisti e minchioni, fatelo per voi stessi pensando che un giorno potrebbe toccare a voi, di avere un dolore, una malattia, un problema grande. E quel giorno vorrete tutta l’attenzione, la tecnologia, la medicina, le possibilità del mondo per guarire e ritornare alla vita.
Per cui andate a casa porcocazzo, adesso, e restateci per un po’.