Sono nata il 21 di marzo di 44 anni fa. Era una domenica notte, per la precisione le 00.15, a testimonianza già allora della mia indole notturna e del ritardo cronico, anche quello per venire al mondo. Sono nata piccina picciò, inconsapevole del fatto che avrei avuto tempo e spazio per riprendere tutti i chili che mi servivano, e anche qualcuno di scorta.
Questo essere piccola portò qualche apprensione in più ai miei genitori e a me fece guadagnare un mese in incubatrice.
Un mese di isolamento e cure ospedaliere, senza la possibilità di contatto con nessuno se non gli infermieri. Mia mamma mi racconta spesso che mi doveva guardare dal vetro del reparto, che io mostravo sempre e solo il profilo, perché ero intenta a succhiare con determinazione il microbiberon che mi mettevano nella culletta. Nessun abbraccio, nessuna carezza, nessun contatto con chi mi aveva messo al mondo. Per i miei genitori, una attesa prolungata, un amore da mettere alla prova della distanza, una cura da centellinare nella fiducia nel prossimo, nella scienza, nell’umanità.
Non so se di quel periodo serbo ricordi sotto forma di sensazioni precorticali – certo non immagini o parole. Forse una parte del mio essere spesso in allarme, in assetto difensivo, vigile, deriva da quel passaggio fondamentale con cui ho preso confidenza con la vita.
Un passaggio in cui sono stata messa di fronte al fatto che me la dovevo cavare da sola, e nello stesso tempo affidarmi a degli estranei, se volevo uscire da lì.
Ci ho messo molti anni, tutta la vita direi, a imparare a fidarmi del prossimo, a fidarmi dell’amore, a chiedere aiuto sapendo che poteva venire concesso, a non pensare, con il corpo ancor prima che con la mente, di dover fare tutto da sola.
Oggi, 44 anni dopo, sono di nuovo in isolamento.
Non sono completamente da sola, ci sono Joe e Malpelo con me, ma la prova non è certo meno ardua. Nel mio mondo diventato iperconnesso, quello che resta di nuovo fuori dalla porta sono gli affetti: i miei amati genitori, mia sorella, i miei nipoti, i miei amici, la mia famiglia allargata.
Di nuovo, 44 anni dopo, sono chiamata a fidarmi degli altri. Ad agire senza fare nulla, rispettando i confini e confidando nel comportamento virtuoso degli altri. Ad affidarmi.
Ѐ una battaglia molto difficile. Non perché io sia indigente (certo, se perdurasse, forse lo diventerei, è una cosa con cui nelle notti insonni un po’ faccio i conti) né perché non abbia casa o cibo, anzi, ne ho fin troppo.
Ma perché mi chiama a un senso di responsabilità piuttosto spiccata, e con me, tutti gli altri. Una responsabilità verso noi stessi, verso gli altri, verso chi non conosciamo, verso il nostro futuro. Verso la democrazia, verso le regole del vivere comune, verso il confine sottilissimo tra i mei desideri e i miei diritti e quelli degli altri, verso il nostro essere specie – come qualcuno ha ricordato – tra le specie viventi, ospiti di un pianeta e non padroni, verso gli altri esseri viventi.
Quando sono nata era primavera, oggi è di nuovo primavera, anche se non è il rigoglio della natura che abbiamo nel cuore.
E allora vivo questo presente per il futuro che verrà, cercando di costruirne un pezzetto piccolo anche io. Con pazienza, con coraggio, con umiltà, con rispetto, senza rinunciare a pensare, a dubitare, a vivere.
In gioco c’è di nuovo la fiducia. Ha portato bene, lo farà anche questa volta.
E la primavera ritornerà.
(E con essa una grande festa, a ballare sui tavoli, promesso).